Le molestie dei puri
New Yorker e New York Times hanno ricevuto il Pulitzer per le loro inchieste su Weinstein. Ma ora il presidente del premio è costretto a dimettersi dopo le accuse di tre donne
Sei mesi di hashtag e, finalmente, un consenso entusiasta si staglia sull’orizzonte degli eventi. “Il signor Diaz ha accolto con favore la nostra decisione e collaborerà pienamente con noi”, hanno scritto, in un comunicato, i membri della commissione del Premio Pulitzer, dalla cui presidenza si è dimesso lo scrittore Junot Diaz (vincitore del Pulitzer per la narrativa, nel 2008, con “La breve favolosa vita di Oscar Wao”). Ciò a cui Diaz non potrà far altro che “pienamente collaborare” è l’indagine appena aperta sul suo conto - più specificamente, sulla sua presunta cattiva condotta sessuale - dal Consiglio del premio maximo.
Nel giro di una settimana, ci siamo forse giocati uno degli scrittori più in voga del momento, uno bravo ma pure apparentemente intoccabile, essendo non solo di origini domenicane e quindi non bianco (cioè non privilegiato per statuto ontologico), ma pure ex vittima di abusi sessuali (venne stuprato, più d’una volta, quando aveva otto anni: lo ha raccontato, per la prima volta dopo quarant’anni di silenzio, il mese scorso, sul New Yorker).
Per guidare il più importante riconoscimento statunitense, Junot Diaz era praticamente perfetto, soprattutto quest’anno che il Pulitzer per il giornalismo è stato assegnato, per le inchieste su Weinstein, a Ronan Farrow, Megan Twohey e Jodi Cantor, di New Yorker e New York Times. A sabotare questa perfetta quadratura, però, sono arrivate tre scrittrici che, più o meno congiuntamente, hanno accusato Diaz di averle maltrattate e/o molestate. Su Twitter, naturalmente.
Tutto comincia con Zinzi Clemmons, scrittrice, che il quattro maggio assiste a un incontro con Junot, durante un festival letterario, a Sydney. Dal pubblico, a un certo punto, prima fa una domanda allo scrittore sulla violenza sessuale che ha raccontato sul New Yorker e, poi, gli domanda come mai lui, sei anni prima, quando lei era ancora una studentessa della Columbia University, l’avesse tratta in quel modo. Quale fosse il modo lo ha scritto, qualche ora dopo, su Twitter: “Ero una studentessa e invitai Diaz a tenere un seminario sulla rappresentazione in letteratura. Ero una sconosciuta ventiseienne con gli occhi spalancati e lui approfittò di questo per ingannarmi e costringermi a baciarlo. Mi rifiuto di stare zitta ancora. Ho le prove di quello che è successo”.
Quasi immediata la reazione di Carmen Maria Machado, scrittrice anche lei e finalista al National Book Award con un libro che si chiama “Her Body and Other Parties” (“Il suo corpo e altre parti”). Costei, sempre su Twitter, ha raccontato che, tempo fa, durante una presentazione, quando domandò a Diaz come mai nei suoi romanzi i personaggi femminili fossero sempre così problematici (e, insomma, gli diede del sessista misogino), lui (incredibile, ma che scandalo) osò risponderle, risentito, di fornirle delle prove e, non pago, la mise più o meno a tacere (succede spesso, alle presentazioni - beato chi non le frequenta - che dal pubblico arrivino osservazioni sceme: l’autore non è mai abbastanza onesto da esplicitare il suo fastidio, come ha fatto Junot Diaz, per il quale, evidentemente, vendere una copia in più non è ragione sufficiente per non mandare al diavolo una scema).
In poche ore, l’Aja dei social network ha quindi stabilito che Junot Diaz è un molestatore, violento, odiatore di femmine. Lui non fa in tempo a dichiarare la massima disponibilità ad esaminare il suo passato e ad assumersene la responsabilità, che in rete comincia a circolare la pagina di un blog di un’altra autrice, Alisa Valdes che s’intitola “Ho provato ad avvertirvi sul conto di Junot Diaz” e che racconta di come lei, tempo fa, lo avesse ospitato a casa sua, una notte, per parlare di un suo libro (una classica situazione da affari editoriali, chi può dire il contrario) e siccome lui “era il tesoro del New Yorker” e lei “una stella nascente della saggistica letteraria”, ha ritenuto di andarci a letto credendo di aver trovato “uno spirito affine”, che però poi si è rivelato “nient’altro che un misogino”, tant’è che non le ha mai fatto i complimenti per le sue pubblicazioni postume.
I tweet e gli “anche io” hanno preso a moltiplicarsi e il copione dell’ennesima distopia si è scritto da solo. Diaz prima ha annullato tutti i suoi appuntamenti pubblici e poi ha scelto di abbandonare il suo incarico (avrebbe potuto fare diversamente? Glielo avrebbero consentito, i colleghi?) e di fingersi entusiasta di fare luce sulla sua condotta sessuale, offrendosi in sacrificio per aver risposto con sufficienza a una domanda scema ed essere finito a letto con una alla quale ha poi dimenticato, negli anni successivi, di mandare fiori e auguri ogni volta che ha scritto una riga.
Quant’è giusto, equo, imparziale questo criterio post giuridico del “credere alle donne”: il maschio non si salva mai. Mai e poi mai.