Il #metoo arriva in accademia. Prof femmina vs scienziati politici
“Dov’è il piano della lingerie femminile?” è una frase che può costarvi il posto
Roma. All’Hilton Hotel di San Francisco sta tenendosi il meeting annuale dell’Isa – International Studies Association (tremila membri provenienti da ottanta paesi di tutto il mondo). Ci sono studiosi e ricercatori di Scienze politiche e Relazioni internazionali dappertutto. Simona Sharoni, professoressa di studi di genere al Merrimack College, sale in ascensore insieme al collega Ned Lebow, professore di Teoria politica al King’s College di Londra, e gli domanda a quale piano scenda. Lui, pazzo sconsiderato ed evidentemente dimentico di essere un accademico – per di più inglese –, risponde: “Dov’è il piano della lingerie femminile?”. Sono presenti una sola altra donna e alcuni altri uomini, tutti bianchi di mezza età, che naturalmente ridono. Sharoni, indignata, va in camera sua, consulta il codice di condotta dell’Isa (cinque pagine di buone norme su come “far prosperare la conoscenza in un’atmosfera di dibattito costruttivo, in cui tutti i membri si trattano con vicendevole rispetto”) e, quando capisce che Lebow l’ha infranto, decide di segnalare l’accaduto in una lettera di protesta al direttore dell’Isa, Mark A. Boyer, nella quale i presenti diventano “amichetti del professor Lebow” e lei una professionista da costoro derisa, diminuita e anche un po’ molestata.
Appreso il malfatto, Lebow commette un errore parecchio più grande – da patriarca, da barone – e, illudendosi di poter risolvere tutto con una contrattazione amichevole, scrive a Sharoni – nata in Romania e cresciuta in Israele – una mail personale in cui le dice (sintesi) ma no, cara, esimia, non volevo metterti in imbarazzo, c’è stato un misunderstanding cultural-generazionale, quella battuta dell’ascensore è un topos di noi maschi europei sulla via del tramonto, non c’è niente di personale, lavoro con le donne da cinquantatré anni, non potrei mai essere un misogino e, anzi, come te, mi oppongo fortemente alla discriminazione femminile e proprio per questo “mi sembra sensato rivolgere la nostra attenzione alle offese reali e non a quelle immaginarie”. Come se non bastasse, in chiusura di letterina, le scrive pure che lui considera la protesta di lei “frivola”.
Sharoni spedisce tutto al direttore Boyer, il quale impone a Lebow di scusarsi con la sua collega non solo per l’ignobile bullismo in ascensore, ma pure (soprattutto) per averle detto come dovrebbe sentirsi, minimizzando un suo disagio e pretendendo di misurarne lui l’intensità.
Questi i fatti. Il punto, evidentemente, non è più l’azione in sé, ma la sua ricezione. Non c’è più modo di lasciare una parola dentro i margini del suo senso: il significato di quello che diciamo ha preso a corrispondere in modo pressoché totale alla traduzione che ne fa la sensibilità di chi l’ascolta. Sembra etica, ma è il suo esatto opposto. Boyer ha minacciato Lebow di consegnare il file all’inappellabile giudizio della commissione etica (appunto) dell’Isa, che quasi certamente potrebbe sottoporlo a un provvedimento disciplinare, ma lui niente, non ha intenzione di piegare la testa e, anzi, ha risposto: “Sono un uomo, non una donna, in quell’ascensore non c’erano miei amichetti e nessuno ha riso, non ho nulla di cui scusarmi”. Da quando l’affaire è diventato pubblico e il Washington Post ne ha scritto, Sharoni dice di venire quotidianamente raggiunta da email anonime che la minacciano e insultano, ma né questo né un bullo da ascensore e i suoi commilitoni basteranno a intimidire la sua battaglia contro “la marginalizzazione delle donne nelle accademie, dove i maschi bianchi decidono cosa può dirsi una violazione e cosa, invece, è da considerarsi una frivolezza”. Il repulisti dell’accademia è cominciato, cadranno molte teste e se un Nobel per la letteratura in meno non fa male a nessuno, stesso non dicasi per uno studioso inibito e sanzionato in più. Craig N. Murphy, professore di Scienze politiche al Wellesley College ed ex presidente dell’Isa, ha dichiarato che il disagio della professoressa Sharoni è “del tutto comprensibile” e che il suo più grande auspicio per il futuro sono le dimissioni irrevocabili dell’umorismo démodé “dei nostri padri”: “Ned capirà, ne sono certo”.
Sorvegliare e punire l’umorismo più o meno becero, la malizia, il repertorio di convenevoli e ironie “di genere” che hanno evidentemente stuccato tutti e infoltire l’indice di cose che non si possono più dire sono passi obbligati per non inciampare in tempi di #MeToo, quelli in cui la sola vetusta categoria di cui non intendiamo sbarazzarci è quella del maschio volpone. Qualcuno ha scritto che è finito il tempo degli abusi, c’è da star allegri.
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