Foto di James Frid via Good Free Photos

L'inutile e sciocca febbre dei like

Costanza di Quattro

Fagocitati da un mondo virtuale, preda di un branco affamato di automi dallo sguardo illuminato da un display, siamo tutti, indistintamente, assoggettati al giudizio di massa

Lanciati lì, senza un perché, o frutto di uno studio attento e certosino, i like sono il nuovo metro di giudizio di questa triste società. Il compiacimento per noi stessi passa inevitabilmente da quanti più like siamo riusciti a ottenere con uno dei tanti post che giornalmente inondano le nostre pagine. Fagocitati da un mondo virtuale, preda di un branco affamato di automi dallo sguardo illuminato da un display, siamo tutti, indistintamente, assoggettati al giudizio di massa. E mai massa fu più massificata di quella che fluttua, come un fiore d’acqua direbbe Proust, ma in questo contesto stride come il parmigiano sui ricci di mare, nel vanesio mondo del web.

  

Il selfie, ad esempio, è il trionfo di un narcisismo demenziale senza precedenti. Provate un attimo a immaginare la scena con lucido distacco. Il telefono impostato in modalità selfie, le labbra gonfiate tra il sexy e l’imbronciato, lo sguardo volutamente perso e distrattamente piantato, un po’ strabico, sulla telecamera e i capelli al vento. Superata questa scena imbarazzante vengono in soccorso i miracolosi filtri. La pelle diventa liscia, la luce fotografica brillante, lo sguardo persino intelligente. Compiaciuti innanzitutto dal miracolo tecnologico, decidiamo che questa immagine non debba rimanere solo una nostra segreta soddisfazione ma tutto il mondo ne debba godere. Allora via su Facebook o meglio ancora su Instagram nell’attesa febbrile di vedere fioccare like, cuoricini, cagnolini che mandano baci e commenti che stanno a mezzo tra una bieca ipocrisia e una sottile cattiveria celata da un rivoltante buonismo.

  

Gli amici sono i primi, quelli stretti però, quelli che se anche pubblicassi un telo bianco ti regalerebbero un like. Poi ci sono i parenti, non quelli particolarmente stretti perché loro solitamente sono gli unici a provare una dignitosa vergogna, e infine i followers, folla disordinata di narcisisti ricattatori la cui psicologia affonda le radici nel baratto di primitiva memoria; io ti do un like e tu me ne restituisci un altro.

  

Naturalmente il contesto fa la differenza. Se ci spiaggiamo come balene in un atollo, i like saranno molti di più, se diventiamo provocatori e troviamo la frase a effetto a corredo della foto, riusciamo a strappare anche qualche commento compiaciuto. Eppure, pensandoci bene, l’esaltazione del nostro ego che durata ha? Effimera, evanescente come un flash, come il tempo dedicato a un like, come la disattenzione che costituisce la regola della nostra vita.

  

La psicologia dei like è così contorta che meriterebbe di essere analizzata con più attenzione. Se è vero, come sostiene Freud, che “l’umanità ha sempre barattato un po’ di felicità per un po’ di sicurezza”, è altrettanto vero che oggi il grande psicologo avrebbe sostituito la parola “felicità” con “dignità”, perché è proprio la dignità che questa società ha svenduto in favore di una parvenza di sicurezza, di un inconsistente narcisismo, di una richiesta, freudiana per l’appunto, di attenzioni, di sentirci considerati dal mondo e quindi da noi stessi.

  

Non esitiamo dunque a violentare una privacy che regaliamo con troppa leggerezza, a svendere i nostri sentimenti come pesce fresco nel grigio mercato del web, a raccontare, senza distanze né giudizio, i momenti concitati della nostra vita. Dal primo vagito all’ultimo rantolo la nostra esistenza passa al setaccio del giudizio altrui e questo non è affidato alla conversazione, alla fisicità, alla verità della voce. E’ affidato principalmente a un pulsante con un pollice stilizzato in su che rimanda tanto a quella benevolenza da impero romano, quel distaccato e indifferente modo convenzionale per salvare la vita a gladiatori coraggiosi. Eppure saremmo altro, fatti di carne e sangue, testa e cuore. Potremmo evitare di vivere con un telefono in mano, prosecuzione anatomica delle nostre estremità. Potremmo evitare di fotografare ogni cosa per poi pubblicarla e semplicemente goderla per quel che è. Vivere l’istante e tenerlo nostro, come un segreto, come una bugia troppo bella per condividerla con gli altri. Potremmo evitare di aspettare che qualcuno muoia per regalargli un post e vedere fioccare tutti quegli insulsi “R.i.p.”, lampante esempio di quanta importanza diamo alle cose, come se scrivere Riposa in pace per esteso ci rubasse troppo tempo.

  

Potremmo smetterla di dovere necessariamente rimandare l’immagine di ciò che non siamo, donne e uomini eternamente in carriera, col “dopobarba che sa di pioggia e la ventiquattro ore”. Potremmo cominciare semplicemente a vivere quel “carpe diem” senza avvertire la smania convulsa della condivisione.

  

Sarebbe bello lasciare i ricordi al ricordo, a quella molle bellezza di una immagine affidata solo alla nostra memoria. Sarebbe bello riappropriarsi delle proprie emozioni vivendole segretamente, con quel rispetto dovuto alle grandi gioie e ai grandi dolori. Sarebbe bello riaversi, come dopo uno svenimento, con i sali della vita, quelli che hanno il profumo di umanità, quelli che ti tengono abbracciato alle cose vere. Quelli che un like lo accetti, ma solo se la persona che ti sta accanto ti alza il pollice e sorride.

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