La memoria di Tortora
Non fu un errore giudiziario, né un affare di mele marce. Fu la “ragione di corporazione”. Monito per l’oggi
Dopo una lunga stagione di oblio volontario e di cattiva coscienza, il caso Tortora è ormai parte del calendario liturgico nazionale. Tra la tarda primavera e la tarda estate i giornali commemorano ogni stazione della Via crucis: l’anniversario dell’arresto, l’anniversario della condanna, l’anniversario dell’assoluzione, l’anniversario della morte. L’anniversario del referendum no, quello non è abbastanza cristologico, potrebbe turbare l’animo dei fedeli radunati per la sacra rappresentazione della passione. Ce lo vedete, voi, un Cristo che si schioda dalla croce e si mette a raccogliere firme contro Caifa?
Tutti si scappellano davanti alla statua di sant’Enzo, tutti si segnano distrattamente incrociando l’edicola votiva, e passano oltre. Del resto, l’Italia è una fabbrica di cristi minori – Moro, Falcone, Borsellino – prodotti in serie seguendo le istruzioni di “Totem e tabù”: prima li linciamo e li divoriamo in un banchetto, poi, al termine di una digestione che può durare anche decenni, li divinizziamo e ci flagelliamo pubblicamente per le nostre colpe. Spesso i persecutori diventano i più ferventi tra i devoti; non perché una voce imperiosa dal cielo li abbia sorpresi sulla via di Damasco, ma perché ormai il morto è morto e possono giocarsi a dadi anche la sua eredità, usarne e abusarne come vogliono. Della memoria di Falcone e Borsellino i fattori infedeli hanno fatto un vessillo per improbabili crociate. La storia di Tortora si è prestata piuttosto a un’appropriazione farisaica, e la intendo alla lettera: “Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti”, dicevano i farisei mentre complottavano per mettere in croce un altro profeta, l’ennesimo. Sarà per questo che quelli del Fatto quotidiano, sempre in prima fila se c’è un’adultera da lapidare, non si perdono una messa in suffragio dell’anima di Tortora. Nel trentennale della morte salutano in quell’agnello sacrificale di un’epoca lontana “la personificazione dell’errore giudiziario italiano”, mentre proprio ieri il loro direttore firmava un editoriale sulla giustizia e le carceri che pareva scritto da Pinochet in un giorno di nervosismo. Ricordare Tortora è inutile, specie se per amor di liturgia e di agiografia si accantonano alcune verità difficili, o diciamo pure alcuni misteri dolorosi.
Primo mistero: il caso Tortora non fu un errore giudiziario, se non forse nelle prime fasi dell’istruttoria. Fu “un’ingiustizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano”, per usare le parole di Manzoni. Nella buona fede dei suoi accusatori Tortora smise di credere molto presto, e in uno dei suoi comizi al tempo del referendum per la responsabilità civile dei magistrati disse che non di errore si era trattato, ma di “proterva, arrogante insistenza sul male fatto, cercando di coprire quel male con altro male”. Secondo mistero doloroso: non fu affare di mele marce, di pochi magistrati pasticcioni o improvvidi. Il vero nemico con cui Tortora dovette cimentarsi – massiccio, senza volto, impenetrabile – fu la “ragione di corporazione”, come la chiamò nelle dichiarazioni finali al processo d’appello, evocando davanti ai suoi giudici, sublime temerarietà, l’affaire Dreyfus: “Lo ricorda la corte? Bene, mettete al posto dell’armée, l’esercito intoccabile, la magistratura; mettete al posto dell’ebreo capitano Dreyfus l’uomo di spettacolo, e avrete il processo di oggi”.
E c’è infine una terza verità, poco amata dai devoti della statua di sant’Enzo che lacrima sangue: per sfidare l’armée Tortora mise insieme un esercito, con Marco Pannella al suo fianco. Morì da generale, con le armi in pugno, non da povero Cristo schernito dai soldati. Vinse una battaglia che non poteva vincere, e infatti decretarono nulla la vittoria. L’armata ebbe la prova della sua invincibilità, e qualche anno dopo seppe come servirsene.
Fate pure la festa, ma non gabbate lo santo.
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