Il mostro in mostra
L’esposizione rituale di Weinstein con manette e sorriso sposta in tribunale il baccanale del #MeToo
New York. Harvey Weinstein non ha fatto come Sherman McCoy nel Falò delle vanità, che era stato istruito a indossare giacca e cravatta alla perp walk per apparire il più professionale possibile, anche in manette, e non ha seguito l’esempio di John Gotti, che si è messo il migliore abito su misura del guardaroba quando sapeva che i federali sarebbero venuti a prenderlo; si è consegnato alla polizia di New York con un outfit dimesso: giacca, maglioncino blu e camicia bianca, sotto braccio aveva alcuni libri, fra cui una biografia di Elia Kazan.
Quando è uscito dalla centrale per la rituale camminata in manette, sequenza fondamentale del legal drama americano che trova le sue radici nel puritanesimo in stile Lettera scarlatta, ha però dimostrato di conoscere l’adagio del columnist e attivista Nat Hentoff: nella perp walk anche gli innocenti hanno la faccia da colpevoli. E così Weinstein ha sorriso. Nei pochi metri che separavano il portone dal Suv a vetri oscurati che lo ha portato in tribunale, mentre i fotografi gridavano “guarda qui!” e le attiviste del #MeToo “vergognati!”, il disgraziato produttore in manette ha sfoggiato un sorriso beffardo che ha fatto perfino perdere la calma per un attimo ad Asia Argento, che invece avrebbe dovuto godersi in tutta tranquillità, parole sue, “il primo passo della sua inevitabile discesa all’inferno”.
Wipe that smile off your face you fucking monster
— Asia Argento (@AsiaArgento) 25 maggio 2018
“Wipe that smile off your face you fucking monster”, ha twittato lei quando ha visto che il mostro inopinatamente sorrideva, resistendo all’aria colpevole che sempre adorna l’imputato condotto pubblicamente in vincoli. Per un istante – solo un istante – il sorriso ha rovinato il baccanale del matriarcato, che con l’arresto del mostro dei mostri, il patriarca del patriarcato, è arrivato alla sua fase culminante. La trafila delle bordate giornalistiche e dell’attivismo social s’è conclusa con la certificazione legale, che è quello che conta dopo tanti hashtag, tanti discorsi, tante serate di gala e di denuncia. E sulla via che dal peccato porta al reato è caduto pure Eric Schneiderman, il procuratore di New York che aveva aperto un’inchiesta su Weinstein ma era appesantito dallo stesso fardello della dominazione maschile. Weinstein ora deve rispondere di tre capi d’imputazione – stupro di primo grado, di terzo grado e “criminal sex act” – mossi da due accusatrici, Lucia Evans e Paz de la Huerta, una piccola percentuale delle donne che lo hanno accusato di molestie. Dietro il versamento di una cauzione da un milione di dollari, l’ex produttore è ai domiciliari con il braccialetto elettronico alla caviglia e senza passaporto. Il suo avvocato, il leggendario Ben Brafman che ha difeso Dominique Strauss-Kahn, Michael Jackson, Charles Kushner e una lista lunghissima di celebrità e boss mafiosi (si è rifiutato soltanto di difendere Arafat), dice che le storie delle accusatrici crolleranno “quando saranno sottoposte a controlli incrociati”. “Sempre che – ha aggiunto – si riescano a trovare dodici giurati che non sono già stati consumati dal movimento che ha travolto questo caso”.