Consigli psicoanalitici per resistere “quando accadono cose incomprensibili”

Guido Vitiello

Giallo-verde come la bile galenica: il governo del rodimento

Chi lo chiama governo giallo-verde, chi lo chiama governo giallo-nero. In un caso e nell’altro, il simbolismo politico dei colori non è molto d’aiuto: bisogna tornare all’antica teoria degli umori ippocratica e galenica. Giallo-verde è la bile secreta dal fegato, e l’eccesso di bile gialla produce un temperamento collerico e irascibile, che è l’essenza del carattere grillino; la bile nera o atrabile, che ha origine nella milza, scatena invece la pazzia malinconica e ipocondriaca, nelle accensioni più incontrollate un delirio di assedio da cui occorre proteggersi con ogni mezzo – ed eccoci nel cuore dell’antropologia salviniana. E’ nato il governo del rodimento, ma guai se trovasse un’opposizione altrettanto biliosa: la salute mentale non saprebbe dove trovare rifugio.

 

Dice: ci sono gli psicofarmaci. E il suggerimento avrebbe pure un senso politico, se il capo della Lega vede nella loro diffusione un indice di scontento: una campagna di prescrizione di massa di ansiolitici e antidepressivi darebbe un segnale inequivocabile. Ma non è così che dobbiamo sopravvivere a questa stagione, amici miei: anche perché non di stagione si tratta, è l’avvio di un ciclo destinato a durare molte stagioni e a contagiare il resto d’Europa. Ci tocca essere stoici, e mancando maestri filosofici all’altezza del compito ripiegheremo sul miglior succedaneo novecentesco dell’antico stoicismo: la psicoanalisi. Certo, ogni psicoanalista è stoico alla sua maniera. Sigmund Freud, scrivendo “Il disagio della civiltà” nel disfacimento di Weimar, inaugurava quello stoicismo pessimistico e altoborghese che ritroviamo echeggiato in tante pagine di Thomas Mann, l’epica dell’uomo civilizzato che governa gli istinti, imbriglia i capricci e s’infligge la disciplina infelice del principio di realtà. Sospetto però che sia un’attitudine difficile da importare, in un paese come il nostro che non dispone di una borghesia civilizzatrice. Ci sarebbe poi lo stoicismo di Carl Gustav Jung, tutto scosso da quel fremito eroico e melodrammatico che spira dalle pagine dello stoico umorale Nietzsche. Consigliava Jung, in coda al suo libro di ricordi del 1961, di forgiare “un io che non si spezza quando accadono cose incomprensibili; un io che regge, che sopporta la verità, e che è capace di far fronte al mondo e al destino. Allora, fare esperienza della disfatta è anche fare esperienza della vittoria”. Questa accettazione virile del fato ricorda il motto stoico che Oswald Spengler mise in epigrafe al “Tramonto dell’Occidente” (ducunt fata volentem, nolentem trahunt), ed è così nobilmente teutonica, ma non sempre le ricadute politiche sono raccomandabili: sia Jung sia Spengler si avvicinarono al nazismo fin quasi a scottarsi.

 

Resta il terzo uomo, quello che tutti dimenticano dopo averne appreso il nome sui manuali: Alfred Adler. Ed è, dei tre, il più schiettamente stoico. Con una citazione di Seneca si apriva il suo ultimo libro, “Il senso della vita”, che porta la data simbolica del 1933 (l’anno dopo, fiutata l’aria plumbea, Adler lasciò Vienna per gli Stati Uniti). A rileggerlo oggi, suona come un lungo svolgimento delle premesse implicite nell’antica massima stoica di Epitteto (“Ciò che turba gli uomini non sono le cose, ma le opinioni che essi hanno delle cose”). Adler non predicava l’adattamento freudiano alle asprezze del principio di realtà né il trionfale abbraccio junghiano al destino; piuttosto, si preoccupava del momento in cui un’opinione sbagliata su sé stessi e sulla vita cozza con il mondo: “Tale scontro produce uno shock, e tuttavia il soggetto ritiene, sbagliando, che il proprio stile di vita sia corretto, anche se non corrisponde al fattore esogeno, per cui non abbandona né modifica la propria opinione, ma continua ad aspirare alla superiorità infischiandosene del prossimo”. Il primo destinatario di questi consigli era la bestia nera di Adler, il frutto dell’errore educativo che gli pareva causa di tutti i mali: il bambino viziato. Lo siamo un po’ tutti, nelle democrazie moderne, e faremmo bene a prepararci allo shock.

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