Così l'ascella pelosa delle femministe è diventata un brand
La figlia di Madonna, Lourdes, diventa icona perché non usa più il rasoio. “È una commercializzazione ridicola. I media si stanno nutrendo a sbafo della donna”, dice al Foglio Barbara Alberti
Serve niente, oggigiorno. Un’ascella irsuta, un abitino succinto, l’ardire di levarsi i tacchi su un tappeto rosso. Poi, eccolo, splendente, il titolo di “femminista” ad insignire il petto della prima venuta. Di Lourdes Maria Leon Ciccone, ad esempio, frutto dell’amore tra Madonna e il suo personal trainer.
Lola, come gli amici la chiamano, è stata celebrata dai media internazionali come esempio di anticonformismo. Dicono incarni valori ormai rari: una spinta all’autodeterminazione scampata alle mode, ai dogmi, alle pressioni di una società sulla quale pende minacciosa la livella di Totò. È una ribelle, la ragazza, o così dicono quanti sostengono che rivoluzione sia un concetto fluido. Qualcosa che possa, indistintamente, consumarsi nelle strade, nelle piazze o sotto le ascelle di una ventiduenne facoltosa.
La ragione per cui la stampa (la stessa che un tempo irrideva la Lola bambina, quei suoi caratteri alla Frida Kahlo) ha preso a incensare la ragazzina sta nel suo rifiuto di depilarsi. Lourdes Ciccone ha braccia pelose, ascelle pelose, gambe pelose. E tanto è bastato a farne un’icona del femminismo moderno, il cui volto, insieme alla peluria ben esibita, campeggia fiero nella campagna pubblicitaria di MadeMe e Converse.
I brand che hanno trasformato Lola in un manifesto, quasi si trattasse della Libertà di Delacroix (la quale pure aveva ascelle folte), hanno finito per reiterare la retorica di Adidas. È stato il colosso tedesco a rompere per primo il tabù, infilando in un suo spot le gambe al naturale della svedese Arvida Bystrom. Adidas pareva intenzionata a dimostrare come la femminilità si adatti a chi lo voglia. E al diavolo i diktat dell’estetica moderna. Si liberino le donne dalla dittatura del rasoio, dalla prigionia della ceretta. Si liberino, e decidano in autonomia del proprio destino. Come le femministe di un tempo, o quel che di più deteriore di queste rimane.
Barbara Alberti è tranchant: “Che banalizzazione. Che piattezza. La libertà di depilarsi o meno rimanda a un’altra regoletta di cui vive il nostro mondo, sempre più stupido”. Non è femminismo. “È una commercializzazione ridicola. I media si stanno nutrendo a sbafo della donna”, dice la scrittrice. “Si tratta di blandire lo schiavo, che ancora porta ai polsi il segno delle catene. È il capitalismo a vincere. Queste battaglie sono un diversivo e una grandissima occasione di guadagno per i media. Il femminismo, così come è inteso da certi ambienti, rischia di diventare un marchio commerciale. E, puntuale ad ogni Festival, ricomincia la passerella”.
Prima gli Oscar, poi i David di Donatello. Infine, il Nobel per la Letteratura. “Non verrà assegnato, quest’anno, perché il marito di una giurata molestava le donne. Ma non bastava denunciare il maniaco? Che c’entrano gli scrittori? Il nesso razionale mi sfugge. È una gara tra premi. Il Nobel non vuol essere da meno degli Oscar e si ammanta di un’intransigenza ridicola: non fa niente per le donne e alla fine va sempre in culo all’arte”.
Del femminismo, quello vero, che nel ’68 ha cambiato le leggi, è rimasto ben poco. “Il dogmatismo, forse”, continua la Alberti, che nel pensiero unico dell’èra odierna dice di vedere la stessa ortodossia di un tempo. “Ogni voce fuori dal coro, il mio dire che l’utero in affitto è un abominio, ad esempio, viene demonizzato, oggi come nel ’68. Ma allora le femministe aggressive e le femministe con i baffi l'hanno rivoluzionato il mondo”, appiattito cinquant’anni più tardi da rivendicazioni misere.
Depilarsi o meno. Camminare scalza sulla Croisette, come Kristen Stewart ha fatto a Cannes 2018, rivendicando con ciò il proprio diritto a stare comoda come un uomo (“Se li mettessero anche loro i tacchi”, l’urlo della protesta). Fasciarsi in un abito strepitoso, tutto spacchi e scollature, e con quel poco di stoffa addosso fronteggiare la Londra piovosa e gelida, come Jennifer Lawrence, certa che (anche) nel nudo stia la libertà di una donna. “In questo risveglio delle donne 'organizzate' credo manchi l’atto politico per eccellenza: l’utopia, il gesto, il sogno. Ci sono alcuni esempi individuali, penso a Fiamma Satta e Michela Murgia, Sabina Guzzanti ed Emanuela Fanelli. Ma esempi di gruppo mai”, spiega la Alberti, certa che il gran parlare delle cause rosa sia un modo come un altro per distogliere l’attenzione da quel che più conta.
“Siamo ridotte di nuovo a tette e culo e tutti si indignano solo se ci toccano tette e culo. Non ne posso più dei maschi che ci danno ragione. Melensi, compunti, un po’ jettatori. Quando parlano di noi sembra ci stiano commemorando. Non siamo mica morte, noi. E non vogliamo ci diate ragione. Vogliamo le leggi. Lo stato di emergenza per i femminicidi: tocchi una donna e ti becchi 40 anni”.
Politicamente corretto e panettone