Nostalgia tiranna
Ci manca tutto, anche l’aria, ma l’arte di rifugiarsi in un passato dorato è diventata un’arma maneggiata dai politici più radicali. Per uscire dalla dittatura ci vuole una storia d’amore con il futuro
La nostalgia è una storia d’amore con la fantasia, la mancanza di un tempo che non c’è più, un luogo, una casa, una carezza, cosa darei per riavere indietro quell’attimo. La fantasia alimenta la nostalgia, la fa crescere, scrive in “The future of nostalgia” Svetlana Boym, docente ad Harvard, nata in Unione Sovietica, arrivata negli Stati Uniti con la voglia di fuga e quella di conquista fuse assieme: passa il tempo, perdi i dettagli ma non i colori, senti che nel passato c’era una forza che non potrai mai più recuperare, e che soltanto tornando lì, in quel luogo, in quello spazio, in quel passato, la storia d’amore potrà compiersi nuovamente.
Nel Seicento la nostalgia era una malattia che si curava con le sanguisughe, però si guariva soltanto tornando a casa
La meraviglia nostalgica che è l’imperfezione del ricordo lascia spazio alla necessità di ricostruire il passato, in contrasto con il presente
Nel Seicento la nostalgia era considerata una malattia, pericolosa ma non letale, si trattava con le sanguisughe, l’oppio, passeggiate in montagna, anche se soltanto il ritorno a casa la poteva curare definitivamente. Un po’ malinconia e un po’ ipocondria, la nostalgia era prima di tutto mancanza di casa, della propria terra, la famiglia, la quotidianità, madeleine dolcissime, una forma di patriottismo che in parte conquistava anche i medici che la diagnosticavano. I russi nel Settecento, quando si accorsero che i soldati soffrivano di questa malattia fino a perdere slancio e coraggio, adottarono metodi definitivi: il prossimo con la nostalgia lo seppelliamo vivo. Si dice che bastarono due sacrifici per debellare la nostalgia, o almeno i suoi sintomi visibili, che erano contagiosi. Ma la nostalgia tornò e, ha scritto la Boym, “nel Novecento quella lieve indisposizione si è trasformata in una condizione insanabile”: ci sarà un’epidemia globale di nostalgia, disse la studiosa. “The future of nostalgia” è stato pubblicato all’inizio del secondo millennio, non c’erano onde populiste né isolazioniste, qualche segnale qui e là, ma la Boym, che è morta tre anni fa poco più che cinquantenne dopo essersi inventata anche fotografa (fotografava idranti nelle città americane, ci vedeva dentro gli immigrati, ovunque, sempre un po’ fuori posto eppure necessari, ci vedeva dentro se stessa, e la propria nostalgia), già intravvedeva i pericoli del passato come rappresentazione del futuro.
C’è la nostalgia “salubre e contemplativa” che si fonda sulla perdita e l’appartenenza, “il processo imperfetto del ricordo”, la storia d’amore con la fantasia, l’attimo in cui tutto sembrava possibile. Ma c’è anche la nostalgia “restauratrice”, zero romanticismo, zero fantasia, zero imperfezioni, più muscoli meno cuore: il passato deve essere ricostruito nel modo più rigoroso possibile. “Questo tipo di nostalgia – scriveva la Boym – caratterizza i revival nazionali e nazionalisti in tutto il mondo, ricostruisce la storia con miti anti moderni, con il ritorno dei simboli identitari. La nostalgia restauratrice ricostruisce i monumenti del passato, mentre la nostalgia contemplativa vive sulle rovine, sulla patina del tempo e della storia che passa, i sogni su un altro tempo, un altro luogo”.
Si può essere nostalgici in modo diverso, io mi coccolo con il ricordo imperfetto e tu vuoi riportare il passato qui ora subito uguale ad allora, ma l’epidemia è arrivata per ognuno di noi, siamo immersi nella nostalgia, manca tutto, anche l’aria. Di nostalgia non si muore, ma non ci bastano le passeggiate in montagna per curarci (le sanguisughe non le abbiamo provate), l’epidemia è diventata un’arma potente e silenziosa. La chiamano “politica della nostalgia” e un centro studi inglese, Demos, l’ha analizzata in ogni suo dettaglio, duecento e più pagina di analisi sociale, economica, culturale. La ricerca riguarda il Regno Unito, la Germania e la Francia, ma anche in Italia l’arma della nostalgia è utilizzata, vogliamo tornare a un tempo in cui ci sentivamo più uniti e più uguali, ci riconoscevamo l’un l’altro, via gli stranieri, via la globalizzazione, via l’Europa. Un po’ mito del passato e un po’ nazionalismo: ecco la formula della politica della nostalgia che ammalia, il cambiamento va a sbattere contro la scenografia del futuro e fa un balzo all’indietro, la rivoluzione non ha più occhi che guardano oltre la collina.
Sophie Gaston, autrice della ricerca sulla nostalgia e vicedirettrice di Demos, si dilunga molto sulla definizione di nostalgia che è diventata tiranna, e scoprirlo fa male. Tutti siamo nostalgici di qualcosa, ognuno ha una propria “età dell’oro” cui fare riferimento: ho chiesto “che cos’è per te la nostalgia?”, mi è stato risposto: “Tutto”. Romanzi, film, canzoni, tutto è nostalgia, un tempo perduto, un tempo ritrovato, se sei fortunato. Che ora questa “lieve indisposizione” come la definiva la Boym sia diventata un’arma in mano ai più radicali tra i nostri politici è parecchio fastidioso.
La Gaston fa una distinzione tra la nostalgia personale, il nostro tutto, e quella sociale: “L’influenza sempre più grande della nostalgia nel dibattito pubblico – dice – riflette la necessità di adattarsi alla mobilità del mondo globalizzato”. Siamo partiti, siamo andati, pionieri di noi stessi nel mondo globalizzato e ci siamo ritrovati senza quella che gli studiosi definiscono “homefulness”, la potenza di sentirsi a casa, e questa assenza va a braccetto con la solitudine, con le relazioni sfilacciate, con la perdita di autenticità.
L’autenticità ha un ruolo essenziale quando si maneggia la politica della nostalgia: una volta eravamo veri, noi stessi, oggi intorno è tutto falso, inventato, ritoccato, vale soltanto l’inquadratura migliore, il resto finisce nel cestino. E in un attimo la contemplazione, quella meraviglia nostalgica che è l’imperfezione del ricordo, lascia spazio alla necessità di ricostruire il passato, la nostalgia si fa dittatura in contrasto con il presente – del futuro non si parla più. Il blocco accademico più rilevante nello studio dell’applicazione politica della nostalgia riguarda la “nostalgia post sovietica”, che ha esplorato il processo per cui enormi cambiamenti nell’identità nazionale e culturale di un popolo si intrecciano con nuove ideologie e nuove strutture politiche fino a proiettare punti di vista estremamente polarizzati sul valore della modernità e sull’impulso nostalgico verso il passato. “L’esperienza del collasso dell’Unione sovietica è unica – dice la Gaston – ma negli anni recenti i sistemi politici occidentali hanno iniziato a sperimentare forme simili di sconvolgimento strutturale, mentre ideologie in competizione, divisioni sociali e modelli economici poco funzionanti hanno creato società più polarizzate, meno unite, la terra più fertile per un’espressione nostalgica della politica e della cultura”. Anche la nostalgia è polarizzata. Il critico inglese Owen Hatherley ha scritto un paio di anni fa un pamphlet polemico che si intitolava “The ministry of Nostalgia” in cui sosteneva che i politici ci stavano rimpacchettando il passato con carta e nastri nuovi per “venderci l’indifendibile”, che per lui è l’austerità. Quando il libriccino è uscito, i conservatori inglesi parlavano di progetti per il futuro dolorosi ma promettenti, la Brexit non aveva ancora risucchiato ogni risorsa intellettuale britannica, e Hatherley era innervosito dal fatto che fossero tornati dappertutto (e con una quantità di rivisitazioni incalcolabili) i celebri poster che il governo inglese aveva prodotto prima della Seconda guerra mondiale: “Keep calm and carry on”. Era l’urlo motivazionale che Londra lanciò in vista dei bombardamenti: calmi e morale alto. Ci propinano questi messaggi per “consolarci della violenza del neoliberismo”, scrive Hatherley, e no, non siamo affatto calmi e non vogliamo tirare avanti in questo modo.
Una studiosa ha annunciato un’epidemia di nostalgia. A gestirla meglio oggi sono i custodi di un’età dorata che non c’è più
La nostalgia è ora un antidoto alla globalizzazione, torniamo a quando ci riconoscevamo l’un l’altro, via gli stranieri, via l’Europa
Il ministero della Nostalgia è un’accusa a un governo liberale, ed è su questo filone che procede anche lo studio di Demos, recuperando i due concetti che stanno alla base della nostalgia “restauratrice” di cui ha scritto la Boym: la restaurazione delle origini e le teorie complottiste su come la propria casa e i propri valori sono stati distrutti dalle “forze esterne”. “Gran parte della retorica dei partiti populisti fa riferimento a questo tipo di nostalgia – dice la Gaston – che si basa su una memoria idealizzata del passato e della casa, e su una narrazione complottista sulle forze esterne che minacciano questa visione”. E’ così che la nostalgia ha perso la sua componente personale e contemplativa ed è diventata un’epidemia politica, che pone il passato come unico riferimento possibile per costruire il presente.
La tirannia della nostalgia è un po’ ovunque nel mondo occidentale, riguarda le destre e le sinistre – anche il centro ha la sua nostalgia liberaldemocratica, culla in particolare il ricordo degli anni Novanta e guai a chi ce lo tocca, ma essendo il centro ormai pressoché vuoto anche questo culto è diventato minoritario. Il referendum inglese sull’uscita dall’Unione europea ha tracciato le linee su cui poi si è diviso il dibattito pubblico un po’ ovunque, ora anche in Italia è scoppiata la nostalgia del tempo che fu prima che il giogo europeo affossasse i desideri del nostro popolo, con quella valuta comune che ci ha indeboliti, impoveriti, irritati tutti. Sembrava sorpassata la fase in cui si litigava sull’età dell’oro cui fare riferimento, ognuno con la propria sfumatura: avevamo ricominciato a guardare al futuro, alla modernità, alla cultura del progresso, ma l’ora d’aria è durata meno del previsto e ora siamo di nuovo qui a pensare il passato come la miglior forma di cambiamento. La nostalgia è un tiranno furbo, nella sinistra occidentale è incarnata da leader come Jeremy Corbyn nel Regno Unito o Bernie Sanders negli Stati Uniti, i purissimi, gli autentici, mai corrotti, mai piegati, anche quando con loro non c’era quasi nessuno. Durante la sua campagna elettorale per le primarie nel 2016, Sanders disse: “Quarant’anni fa, in questo paese, prima dell’esplosione della tecnologia e dei telefoni cellulari e di tutte queste cose, prima dell’esplosione dell’economia globale, una persona in una famiglia, una persona soltanto, poteva lavorare 40 ore a settimana e guadagnare a sufficienza per mantenere i suoi familiari”. Le cose funzionavano meglio quando il locale era locale, le comunità si aiutavano, le vite degli altri erano a portata di mano: quanto lungo è il passo da questa visione a quella dei brexitari, o della destra isolazionista, che vogliono “prendere indietro il controllo”? O da questa visione sandersiana a quella di Donald Trump che con il suo “Make America Great Again” ci riporta all’istante in un “again” che sa di nostalgia? E’ cortissimo. Così come è cortissimo il passo tra la restaurazione di un mondo in cui ci si riconosceva perché si era vicini, compagni di scuola, figli di vicini o di compagni di scuola e il desiderio di chiudere le porte agli stranieri, che sono diversi, inassimilabili, corruttori di quell’equilibrio dorato di una stagione passata: stiamo parlando di noi, del nostro nuovo governo. Cas Mudde, che è uno degli esperti più citati del mondo perché ha scritto l’anno scorso un libro agile da leggere sulla definizione di populismo, ripete spesso che finché la politica della nostalgia è dominante, non si riuscirà a pensare al futuro. Anzi, la nostalgia nasce proprio dall’assenza di una prospettiva per il futuro, “quando i politici non offrono più una visione attrattiva del futuro, la gente si sollazza con il passato – dice Mudde – Saremo tutti sedotti da un passato immaginario che è comunque molto in linea con il passato privato, altrettanto immaginario. E’ facile ridurre questa nostalgia a ingenuità e razzismo, ma così i voti non tornano (al centro, ndr), né si impedisce di aumentare il consenso” dei partiti radicali.
Mentre ci cullavamo con gli attimi fuggiti, la nostalgia è diventata la reazione spesso irosa alla globalizzazione, al progresso, all’Europa, al mondo liberale: non ha numeri da presentare – il progresso occidentale ne ha molti, puntano tutti verso l’altro, non sono contestabili – ma lavora su quel senso di insoddisfazione che fa dire a più del 70 per cento di americani e al 66 per cento degli inglesi che la vita e la cultura nazionale sono molto peggiorate rispetto agli anni Cinquanta (e questo è il mondo anglosassone, il motore del mondo). E’ un’arma potente perché la nostalgia è tutto, siamo noi, ricordi imperfetti, istantanee sbiadite e stupende. Ma si può reagire, puoi restare nostalgico sul tuo divano e quando esci puoi inventarti una storia d’amore con la fantasia che guarda oltre il presente, oltre il come eravamo, oltre il buio, laddove il tutto diventa promessa e conquista: a domani.
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