Seduttori addio
Uomini che non vogliono farsi notare, uniformi e uniformati. Come in un romanzo, si potrebbero scrivere memorie di puttanieri tristi
Gianluca Isaia ha aperto una settimana fa a via Bocca di Leone la prima boutique nella capitale, duecento metri quadrati in un palazzo secentesco affidati al restauro conservativo di Ferrari architetti. L’ha inaugurata giovedì sera con tutta la Roma che conta e che dunque non spende un centesimo e già adesso ha un quadro preciso di come andranno le vendite per il prossimo anno; in particolare, di chi acquisterà i suoi vestiti di giocosa eleganza: innanzitutto gli americani, che hanno ricominciato a spendere, sono molti e hanno di nuovo voglia di divertirsi con la moda; i russi, fra i quali spicca qualcuno curioso di sperimentare ma bisognoso di rassicurazioni, cioè di marchi conosciuti, per farlo; gli inglesi, why not. Gli spagnoli e nonostante la crisi che grava sul governo di Mariano Rajoy. Gli italiani, zero. E non perché lo spread sia schizzato a quota 300, valore del momento in cui si chiude questo articolo, anche perché in genere chi entra in una boutique Isaia non soffre di problemi sui tassi del mutuo ma perché, come dice rassegnato, “in Italia, salvo i giovanissimi che mi paiono gli unici sui quali fare affidamento per un po’ di originalità, nessuno ha più voglia di osare, di esprimere sentimenti, opinioni e preferenze attraverso l’abbigliamento”, che è l’unico motivo per cui ha senso acquistare una nuova giacca o un paio di pantaloni non avendone alcuna necessità. Mentre Isaia approfondisce il concetto (“abbiamo perso il gusto della sprezzatura che il mondo ci riconosce come unica: ormai cerchiamo l’uniformità, se non l’invisibilità: abbiamo timore di tutto”), evoco il gruppo di banchierini e avvocaticchi in grisaglia e francesine nere impolverate che ho incrociato poche ore prima in una rosticceria del centro di Milano mentre si procurava un pasto caldo da consumare in piedi con la forchetta di plastica: un piccolo, giovane esercito uniforme e già ingrigito negli stessi gesti, le stesse smorfie e gli stessi gusti “mi metta un po’ di parmigiano sulla bresaola e poco olio, mi raccomando che sono a dieta” e giù la risatina di auto-scherno di prammatica. I tipi métro-boulot-dodo, come dicono i francesi: metropolitana, lavoro, nanna, quando ancora dovrebbero azzannare il mondo o, almeno, trovare una sola ragione per ridere. Uomini che non vogliono farsi notare, per i quali esibire gusti diversi dalla media, letture originali, lessico personale pare del tutto inconcepibile; uomini, insomma, uniformi e uniformati, virtualmente pronti ad acclamare un nuovo capo supremo; gente che aspetta solo di accodarsi e che nel frattempo volano basso per schivare il sasso, come nel proverbio.
Tre settimane fa è morto, dopo una lunga infermità, uno dei più famosi pubblicitari italiani dell’ultimo trentennio, Maurizio d’Adda, portandosi via i suoi “44 gatti”, i suoi Baci Perugina “tu-tu-tubiamo”, i suoi amari Jaegermeister che Raz Degan bello e giovanissimo non beveva “senza sapere perché”, il suo scorrettissimo Alberto Tomba che, in versione robot, pizzicava il sedere della scienziata al primo boccone di rinvigorenti penne Barilla e immaginatevi adesso una campagna così. Leggendo i necrologi e i coccodrilli apparsi un po’ ovunque, si aveva l’impressione che, con lui e con la sua generazione, nata con Emanuele Pirella e ormai sfiancata da una genia di direttori marketing terrorizzati dalla propria ombra, fosse scomparso molto di quello spirito guascone e irriverente che ha caratterizzato la vita degli italiani a cavallo fra i Settanta e i Novanta, Tangentopoli compresa quando, ormai è evidente, perfino gli indagati di Antonio Di Pietro riuscivano a essere, o almeno ad apparire, meno sfigati di questi tribuni del popolo che sgambettano due volte al giorno su e giù per il colle del Quirinale.
I tipi métro-boulot-dodo, come dicono i francesi: metropolitana, lavoro, nanna, quando ancora dovrebbero azzannare il mondo
Qualche giorno fa, sul Foglio, Mauro Zanon analizzava il nuovo saggio dell’intellettuale liberale francese Laetitia Strauch-Bonart sull’“obsolescenza programmata maschile”, indicando come, a dispetto delle attuali ed evidenti disparità di salario e di occupazione di posti di potere, nel giro di una quindicina d’anni la situazione potrebbe essere ribaltata a favore delle donne, più abili e flessibili in tempi di terziarizzazione dell’economia, portando a sostegno le divergenti parabole nel tasso di attività dal 1975 a oggi. Sebbene la situazione francese non sembri paragonabile con quella italiana, soprattutto al sud (in Sicilia, peggiore performance europea, lavora solo il 29 per cento delle donne), perfino nella Milano dell’happy hour tira una cert’aria di rassegnazione. Cupa e ostile. Ci danno da temere, questi uomini di oggi, così incerti e violenti, questi puttanieri tristi così poco saldi nella rappresentazione di sé che perfino chi li veste ha dovuto riaggiornare il proprio lessico. Scorrendo gli inviti e i comunicati allegati degli espositori della prossima edizione di Pitti Uomo, in apertura il 12 giugno con tutti i 1.240 espositori attesi ma con qualche titubanza sul futuro perché questo tsunami politico rischia di mettere in pericolo anche la redditizia vanità maschile, per la prima volta in vent’anni, cioè da quando mi occupo di questo settore, non ho mai letto il sostantivo “dandy”, anzi no, una volta sola, per un marchio di seconda fascia, evidentemente lontano dallo zeitgeist. E’ scomparso come il suo diretto compagno, il “seduttore” e con la sua variante più vanesia e cretina, i “peacock”, i pavoni.
Fra gli invicti e le grisaglie con la scaglietta di parmigiano, anche noi donne del #MeToo sappiamo sempre chi scegliere
Mentre Harvey Weinstein indossa da qualche giorno una cavigliera elettronica per la quale ha staccato un assegno da un milione di dollari in attesa del processo per stupro e atti criminali di natura sessuale, le fasce di popolazione mondiale sensibili al #MeToo, perlopiù banchi, occidentali e di cultura medio-elevata, cioè le grisaglie di cui sopra, hanno iniziato a considerare con attenzione perfino l’opportunità di salire in ascensore da soli con una collega, un atto che fino a pochi anni fa, in Italia, compiva solo il direttore generale della Rai e notoriamente uno specifico, Luigi Gubitosi, dopo aver sbarrato l’accesso al settimo piano a tutte le attricette in cerca di particina, prassi lasciata felicemente in eredità ai suoi successori. Sulle questioni che riguardano l’uomo, ormai, vanno caute anche le aziende della moda quando comunicano le nuove collezioni, al punto di aver trasferito dal soggetto all’oggetto il ruolo di protagonista. Il capo in vendita si è trasformato nel feticcio unico e assoluto, o per meglio dire nell’“icona”, sostantivo abusato oltre il ridicolo, mentre chi lo potrebbe indossare è stato relegato a comparsa di un progetto di comunicazione più grande di lui. E’ come se l’uomo con il colletto Arrow della celeberrima campagna degli anni Trenta fosse stato sostituito dal colletto stesso. Si è per così dire ribaltata la prospettiva; il colletto è elegante a prescindere, al punto da essere, non a caso, celebrato in mostre ed “eventi”. Siamo al trionfo sociale e commerciale della metafora: la parte è diventata il tutto e anche la metafora di se stessa. Nel lessico standard della banalità, fra “splendide cornici” e “unicità”, ecco dunque il “progetto Siviglia Icons che esibirà come opere d’arte contemporanea tre capi del guardaroba maschile”; gli “oggetti senza tempo” di Alberto Guardiani, dalle “geometrie mediorientali”.
Isaia: “Salvo i giovanissimi, in Italia nessuno ha più voglia di osare, di esprimere sentimenti e preferenze attraverso l’abbigliamento”
A Pitti Uomo, come un po’ ovunque nella moda e, in parte, anche nello spettacolo, l’uomo torna al comando della propria esistenza e del proprio essere quando e in quanto testimonial, meglio se di una di quelle operazioni di comunicazione che passano sotto il nome-birignao di capsule collection: tre t shirt e due ciabatte per strappare qualche titolo di giornale sfruttando il nome in vista del momento, nel caso specifico il rapper Sferaebbasta. Insomma, l’uomo non se la passa benissimo e non solo per via del movimento #MeToo, causa per carità giusta ancorché si inizi a prendere coscienza del fatto che le vere vittime delle molestie continuative e coordinate sul lavoro, vedi cuoche a tempo determinato, lavapiatti, segretarie di primo livello, cameriere con figli a carico e marito involato, cioè donne che non possono dire di no, continueranno a subire nel silenzio e senza gagliardetti “dissenso comune” da sfoggiare sui tappeti rossi e programmi televisivi dove inalberare il broncio del suddetto dissenso.
La questione è che sull’universo maschile, per le ragioni più diverse, negli ultimi mesi è calata una cappa plumbea che dubito potrà mai fugare la festosità pop di Pitti, la sua dichiarata volontà di non “proporre un’austerità in bianco e nero ma un caleidoscopio di motivi e colori decisi”, e questo nonostante il mondo della moda, per sua stessa natura cioè per istinto di sopravvivenza, tenda a rafforzare il lato celebrativo della vita e le sue declinazioni artistiche più piacevoli. I vertici e gli art director di Pitti Uomo, fiutando come sempre il vento, hanno sfruttato l’assist offerto dai Mondiali di calcio per deviare la maggior parte degli investimenti nella celebrazione dei fasti pallonari con una mostra curata da Francesco Bonami e, in sottotraccia, della stessa Russia che da qualche anno, con Demna Gvasalia e Gosha Rubchinskiy, guida una delle correnti stilistiche più seguite, oltre naturalmente a riempire gli alberghi e gli eventi fiorentini di buyer autoctoni. Mentre Gucci e Vuitton, cioè l’olimpo della moda e dello stile, continuano a esplorare il campo vastissimo dell’identità sfiorando la ricerca sociale e non di rado ispirandola, instaurando con i clienti più giovani un dialogo fitto di segni e simboli legati all’autoaffermazione, fra le grisaglie si moltiplicano invece i Gregor Samsa, i critici di Barraquilla che spiano le loro delgadite, le ragazzine magre o, all’opposto, i cosiddetti leoni da tastiera, quelli che davanti allo schermo del pc e a una lattina di birra digitano tutto il loro astio verso il presidente Sergio Mattarella senza aver mai letto la Costituzione e senza nemmeno conoscere i rischi penali delle loro azioni. Ominicchi. Si dovesse cercare adesso, in questi giorni, un nome trasversale e interessante al quale affidare l’immagine dell’Italia, un eroe, ne verrebbe fuori solo uno, il presidente Mattarella, l’unico volto di questa squassata situazione italiana che il New York Times abbia voluto mettere in prima pagina negli ultimi giorni. Non economisti, non letterati, tantomeno politici.
Ci danno da temere, questi uomini di oggi, così incerti e violenti, così poco saldi nella rappresentazione di sé
Sferaebbasta, forse ha ragione lui con la sua capsule collection, i denti incapsulati d’argento e i tatuaggi di prammatica sul collo. L’immagine di un paese e dei suoi uomini passa anche per il lessico e i segni che gli altri gli attribuiscono, ed è incredibile come il linguaggio usato in questi giorni dalla stampa straniera, che magari non sarà migliore della nostra ma ha il vantaggio di essere letta da un numero infinitamente superiore di persone, essendo scritta in lingua inglese, assomigli a quello raccolto dallo “Specimen Epithetorum” pubblicato per la prima volta nel 1518 dall’umanista Jean Texier di Ravisy, e al successivo “Poetices libri septem” di Giulio Cesare Scaligero; in questi compendi di “caratteri nazionali” che riunivano gli epiteti di cui si erano serviti gli autori antichi per definire lo spirito peculiare a ogni popolo del passato a uso dei diplomatici e dell’eventuale oratore ciceroniano che avesse voluto brillare con le sue arringhe, i romani venivano definiti “invicti, atroces, feroces, bellaces, truces” o, ancora “cunctatores, irrisores, factiosi… Dei contemptores”, insomma etnotipi non proprio raccomandabili ancorché, come suggerisce Jean Bodin negli stessi anni, geniali quanto gli spagnoli e miracolosamente privi della loro malinconia. Insomma, non ci siamo mai allontanati dagli stereotipi che vennero fissati per noi, o per meglio dire per i nostri uomini, più di duemila anni fa e, stanti le premesse di questo articolo, per certi versi non è male. Fra gli invicti e le grisaglie con la scaglietta di parmigiano però tagliata fine fine, anche noi donne del #MeToo sappiamo sempre chi scegliere.
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