Siamo tutti piccoli ladri di frivolezze in un bagno d'albergo
Dalla pensione modesta all’hotel stellato, l’immancabile presenza dei flaconcini di shampoo e bagnoschiuma. Ora è lotta agli sprechi: comincerà il colosso Marriott con contenitori più ecologici e fissati alle pareti
Non solo l’Italia forse uscirà dall’euro: la notizia tragica è che non troveremo più in albergo le bottigliette di bagnoschiuma e shampoo. Le amenities, quelle boccette che freneticamente tutti abbiamo trafugato per anni negli alberghi, dall’ultima pensione Mariuccia al sei stelle di lusso bestiale, paiono destinate all’oblio, per lasciar posto a più ecologici contenitori, bottiglioni ricaricabili inchiavardati al muro, ecologici, impossibili da infilare in borsa. Ci mancava solo questo. Lo ha scritto il Wall Street Journal nelle settimane scorse citando Marriott, colosso degli alberghi di medio-alto lusso, che dovrebbe cominciare ad abolire i flaconcini in millecinquecento dei suoi hotel entro gennaio. Una micidiale scadenza, che probabilmente verrà seguita da altre catene. Adesso Marriott ce lo conferma, una gentile signorina ammette che sì, già 450 albergoni saranno privati delle incommensurabili boccette, con l’obiettivo di arrivare a 1.500 entro la fine dell’anno. L’obiettivo, dicono alla catena alberghiera, è di ridurre gli sprechi del 45 per cento entro il 2025: ma se ne andrà anche un mondo, quello delle boccette trafugate in ogni dove, che si prendevano anche solo per il gusto di.
L’obiettivo è di ridurre gli sprechi del 45 per cento entro il 2025. Se ne andrà anche un mondo, quello delle boccette trafugate in ogni dove
Peccato: quanti ricordi non corroborati dal campioncino: andando giù a Los Angeles Downtown, in quel bellissimo centro storico cadente in una città notoriamente senza centro storico, tra negozi di bici materassi telefoni, si era scesi in questo Ace tra farmacie messicane, Walgreens, cinema-teatro sfasciati con venditori di “acqua fria” dal frigo portatile, teatri bombardati, il Roxie e il Los Angeles Theatre, con quattro colonne tipo Fontana di Trevi ma schiacciato, e l’orologio tipo Dalí a cui mancano le lancette, accanto a un negozio di prime comunioni. Era bello poi raggiungere questo hotel che sembrava uscito da Gotham City: in uno dei grattacieloni pinnati del déco disperato losangelino, con tutti gli stucchi e le facciate come castelli di sabbia. Quella volta, l’anno scorso, si fece fatica a entrare perché c’era una prima, e tra la folla poi si apprende essere “Atomic Blonde”, con Charlize Theron, nel teatro sottostante. Si saliva direttamente al bar, andando al tredicesimo piano, l’ultimo, e sbagliando, perché la piscina è al nono. Lì, un nugolo di venti-trentenni emaciati oppure salutari, che bevevano birre Modelo e gin tonic e acqua frizzante Topo Chico, la Lurisia messicana. La piscina, che è in realtà un idromassaggio, è piazzata strategicamente accanto al bar, e se qualcuno ha voglia prende e si tuffa. Si vedevano i frequenti aerei passare sopra le guglie del grattacielo déco , riflessi nella piscina in cui una ragazza di colore con dei Ray Ban a goccia dorati scacciava un’ape, e un suo amico sui vent’anni si lamentava dei malcostumi di Hollywood (non ancora #MeToo).
In questo hotel di languori adolescenti c’erano i famigerati bottiglioni: tre, scuri scuri (shampoo, bagnoschiuma, balsamo), di color verde cupo, come di bottiglia bordolese, e aspetto vagamente medicale-Aesop, la linea penitenziale costosa; blindati al muro da una staffa, per di più; poi tutto regolarmente in vendita presso la boutique dell’hotel, dove si vendono anche asciugamani e ciaffi (e addirittura la staffa medesima, per appendere il bottiglione a casa propria). Altri bottiglioni inchiavardati erano stati visti a Santa Monica in un piccolo boutique hotel del più puro Sunset Boulevard. Non potersi portar via un ricordo sembrava una crudeltà gratuita. Ma forse Instagram ha reso inutile il ricordo olfattivo dell’hotel.
Gli Ace Hotel, in America, dove puoi trovare astucci di profilattici, cereali bio, barrette alla quinoa, ma dei flaconcini neanche traccia
E di ricordi. Che affluiscono mentre si va in bagno arrampicandosi nel modesto appartamento romano su una vecchia mensola su cui si sono accatastate pile di campioncini. Ecco qui, boccettina grigina, Hotel d’Angleterre, Copenaghen. I flaconcini erano grigi, minimalisti, di pura “hygge”, cioè l’etica-estetica danese, che prevede calorosa semplicità. Alla menta. Lo apriamo, l’afrore di menta è quasi del tutto svanito. Era l’estate scorsa, ci si rifugiò dopo una gran delusione d’amore nel maestoso palazzo sulla principale piazza della capitale danese, per sfuggire al male di vivere, dopo una gita al cimitero cittadino. Ci si sorprese molto dei prezzi non così alti di tutto (si era frainteso il cambio), pur sotto il ritratto d’Andy Warhol della sovrana Margherita II che campeggiava nella reception (prima del decesso del marito). Si prenotarono due notti dunque nel micidiale albergo di massimo lusso cittadino, con spa sibaritica nell’interrato, dove si incontrò un signore molto atletico trattato con grande sussiego da tutti. Gli si voleva quasi chiedere cosa facesse per mantenersi così in forma, e poi saltò fuori che era Sting, per un concerto in città. Arrivarono dubbi su un hotel così ben frequentato eppure così economico.
Nell’hotel di languori adolescenti c’erano i famigerati bottiglioni: tre (sapone, shampoo, balsamo), blindati al muro da una staffa
In altri hotel poi si andrebbe quasi solo per le amenities: e certamente quando si andò a Las Vegas decidendo di “scendere” al Trump Hotel, in quell’architettura basica, da Ceausescu, da socialismo reale però dorato (i grattacieli di Las Vegas sembrano un paese immaginario dell’Europa dell’est, ma con molto ottone. Ci sono le montagne, dietro, pare Nova Gorica in Slovenia), l’idea era di fare incetta di boccette. Il Trump è un enorme accendino Cartier, 64 piani di non-morbidezza, con “sopra” e “sotto” di cemento bianco che paiono il suo involucro, di polistirolo. Sotto, un enorme parcheggio multipiano che funge da piedistallo di questo grande parallelepipedo, portieri in livrea e due giganti suv neri targati TRUMP-2 e TRUMP-3, e si immagina che il TRUMP-1 sia in uso solo quando il presidente è in casa, tipo SCV1 per la papamobile.
Jean Frédéric Bazille, “La toilette”, 1869-70 (Montpellier, Museo Fabre)
In camera si fece ovviamente man bassa di tutti i gadget disponibili, da portare ad amici riflessivi e abbastanza spiritosi: il packaging, lettere dorate su fondo blu, è molto anni Ottanta, vecchi Trussardi. Drakkar Noir. Fragranze dimenticate. Un lime molto industriale. Molti agrumi. Ma il paradiso dei gadget era giù, nello shop, una wunderkammer del merchandising demente, un Eataly trumpista. Lingottini d’oro con inciso l’ubiquo TRUMP cubitale (è cioccolato al latte, 5 dollari), mentre lingottini uguali ma d’argento sono invece di cioccolato fondente. C’era anche il lingottone da 30 dollari, tipo Toblerone repubblicano. Poi i famigerati cappellini con la scritta “Make America Great Again”, nella finitura rossa, bianca, nera e camouflage. E poi filtri solari, creme da corpo, shampoo, penne a sfera, apribottiglie, magneti, tutto brandizzato e trumpizzato. E i vini: in uno scaffale a parte, tutta la produzione della Trump Winery, le fattorie in Virginia dove il clan si dedica alla vigna: un rosso (30 dollari) e uno chardonnay (30) e il top di gamma, il blanc de blanc (50), e un bordeaux “Meritage”.
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Ma come reagiranno i clienti, come reagiremo tutti noi privati di queste madeleine schiumose? Molte case si svuoteranno. Ci sono categorie professionali più a rischio prelievo di campioncini di altre. Soprattutto nei viaggi-stampa, si hanno ricordi micidiali di prelevatori seriali non solo di campioncini ma anche di pantofole – le celebri pantofole cartonate però preziose in quanto portatrici dello stemma dell’hotel. Ci sono colleghi – non li nomineremo – che ne hanno accatastate centinaia in appositi comparti degli armadi (per indossarle quando? Non si sa). In certi bagni i campioncini sono sistemati piramidalmente nelle vasche da bagno a segnalare status: legioni di shampoo del Miramonti di Cortina, del Gritti di Venezia, del Carlyle di New York. Spesso ci ricordano vite al di sopra delle nostre possibilità, viaggi a sbafo, occasioni irripetibili.
A Copenaghen flaconcini grigi, minimalisti. Al Trump Hotel di Las Vegas filtri solari, creme, shampoo, tutto brandizzato e trumpizzato
“E’ una airbnbizzazione degli hotel, ma non so se funzionerà”, dice Camilla Baresani che ha scritto il romanzo “Gli sbafatori”
Perché si abbonda nei prodottini tipo balsamo, che mai si usano, e invece non c’è il dentifricio? “Perché costa un botto!” dice Bocca
Un rischio non del tutto evitabile secondo Francesco Saccomandi, direttore marketing di La Bottega, leader italiano (e non solo) nella produzione di amenities; “ci sono stati casi di contaminazioni”, dice al Foglio Saccomandi, che lavora per l’azienda italiana che produce per licenza le boccette per oltre 40 marchi come Etro, Cavalli, Bottega Veneta, e molti altri, e fornisce gli hotel di massimo lusso (dalla catena Four Seasons, ai Forte Village, al Pellicano, ai Nobu Hotels). In pratica il loro business è andare dai grandi marchi (della profumeria, ma anche della moda) e produrgli per licenza le boccette che noi poi collezioneremo. “A loro finire nei bagni di catene come Four Seasons dà grande visibilità”. La Bottega, con sede nelle Marche, è un’azienda familiare di seconda generazione che fattura circa 85 milioni di dollari (in aumento del 9 per cento rispetto all’anno scorso) grazie non solo alle boccette ma anche alle “dry amenities”, cioè “grucce, tessili, accappatoi, pantofole, calzascarpe”. Anche se le boccette costituiscono il 70 per cento dei loro affari. Saranno spaventati dalla fine delle amenità liquide. “Per niente”, dice Saccomandi. “Noi facciamo ogni formato, siamo già pronti anche per quelli più grossi, per i boccioni da 300 millilitri e anche da un litro”, dice. Insomma l’epoca della boccetta è davvero finita. Ma “il cambiamento sarà graduale”, assicura il manager. “Del resto in alcuni paesi già il dispenser è molto richiesto. Per esempio in Germania”. Ti pareva. Colpa della Merkel anche questo: adesso l’austerità arriva anche in bagno.
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