Il funerale di Carlo Vanzina mostra l'anima di Roma
Tutto è ordinatissimo, pur nella città delle buche e dei cinghiali e dell’irrilevanza. Le esequie sono il nostro Expo, il nostro bosco verticale. Ed è impossibile non commuoversi un po’
A Roma bisogna sempre andare ai funerali: soprattutto se non invitati. A Roma, città moribonda e di moribondi, il funerale ha una sacralità e una funzione sua propria. Oltre che pratica: in una città in cui le riunioni e gli amici e gli appuntamenti sfuggono continuamente, ed è tutto un rimandare e un perdersi, i funerali sono spesso l’unico luogo per ritrovarsi. Non fa eccezione il funerale di Carlo Vanzina, stamattina, alla Basilica di Santa Maria degli Angeli.
Intanto il posto, la basilica dove si sposano normalmente i re d’Italia. Prevista per le undici, la cerimonia è a piazza Repubblica, candida e assolata con la fontana delle Najadi in manutenzione asciutta, è già gremita di autoblu e Audi blindate; due ali di folla e paparazzi presidiano la chiesa, e dentro, due fiumi che vanno a firmare i registri. C’è davvero “tutta Roma”; codini e blazer, generali in alta uniforme. La security ha transennato i primi banchi.
Nella navata destra stanno Paolo Sorrentino, solo, in piedi; Marisela Federici che è stata nel suo film, in nero e cappello; arriva Franco Carraro, già ministro e sindaco di Roma, e salta il cordolo e va a sedersi vicino alla moglie, leggendaria salonnière. Arriva in ritardo anche il premio Oscar Dante Ferretti. Poco più avanti, il principe col nome più lungo del who’s who romano, Moroello Diaz della Vittoria Pallavicini; il chirurgo Mario Stirpe in blazer di lino.
Nella navata sinistra in primo banco c’è il fratello Enrico, lo sceneggiatore di tutti i suoi film, sorretto da Carlo Verdone. In secondo banco c’è Silvio Berlusconi, con Gianni Letta. In piedi, i due dioscuri dei Parioli, il presidente del Coni Giovanni Malagò e Luca Cordero di Montezemolo, quasi identici, stesso blazer, stessa brizzolatura da sessantenni dei Parioli. In quinto banco Christian De Sica. In piedi Diego Abatantuono.
La cerimonia è sobria, retta da un giovane don Andrea che ricorda Carlo molto presente in parrocchia e molto pio. Rispetto ad altri funerali di simili ambienti, la redemption delle liturgie è alto. Almeno il sessanta per cento dei presenti si alza al momento giusto, si dà la mano al momento giusto, sa le preghiere. “Un gran signore, è vero”, dice don Andrea, e si capisce che questa signorilità (“signore”, “buono” e “educazione” sono le parole più usate in tutta la cerimonia) è stata davvero centrale nella vita dei Vanzina; la mamma voleva che sposassero delle principesse. I nobili sono in ogni loro film, come del resto in Sordi e De Sica padre. Difficile del resto a Roma scampare alle principesse: uniche role-model urbane-internazionali che la città produca incessantemente da secoli.
E quest’estate romana, non c’è dubbio, sarà ricordata per questi due funerali-show: quello di Domietta del Drago, ultima grande principessa romana, e quello di oggi (curioso che in “Vacanze di Natale” si parlasse proprio di lei: “Che le regalo, alla principessa del Drago? Il Backgammon o la borsa dell’acqua calda?”, si chiede Christian de Sica).
Anche qui, oggi, la signorilità alligna ovunque: la bara è appoggiata a terra “more nobilium”, come scrivono gli esperti; specialità dei funerali aristo (chi è stato grande in vita, può pure essere abbassato in morte). La bara borghese-nobile, in mancanza di valletti di una casa Vanzina, è vegliata da un picchetto dei vigili urbani di Roma, e due gonfaloni con le insegne della AS Roma e del Circolo Canottieri Aniene. La corona dell’Hotel de Russie.
Tra la folla, croci di Malta e croci quirinalizie, vecchie Kelly e Carpisa di gomma. Dinastie del Regno, ibridate alla Repubblica e allo show business: i Letta, i Leone, i Rutelli (di un antenato la fontana qui di fronte). I Brachetti-Peretti. Marina Cicogna. I Barberini (Urbano, principe e attore di soap), i Marchini, i Ruspoli (la principessa Maria Pia, già attrice un po’ erotica). Il mischione, il generone. E’ una fotografia unica di questo animale solo leggendario, la borghesia romana. Mica facile esser borghesi in una città che ha sempre solo tollerato aristocrazia e popolino: dunque ecco lo sport, il circolo, il funerale. Riti livellanti. Visto che tutti i posti erano occupati, ci sedemmo in tribuna Monte Mario.
Qualche giorno fa un’amica un po’ grande mi dice d’aver capito la società romana quando era stata al funerale di Steno, curiosa coincidenza. “La gente si chiedeva, a vicenda: ma poi t’hanno preso, per quella parte?”, come in un evento sociale o di lavoro, e sarebbe facile dirlo anche di oggi: del resto, è funerale estivo, le facce sono abbronzate, qualcuno non ha fatto in tempo a tornare da Sabaudia o Capalbio. Però pochi small talk, tanti piangono davvero, anche non in favore di camera. A un certo punto, una scena molto Vanzina: mentre comincia il canto, “Santo è il signore”, una voce gutturale, altissima, con forte accento ciociaro, comincia a cantare “dio dell’univerzoooo”, tipo Mario Brega. Un Torpigna in purezza. Uno dei bodyguard guarda i colleghi e trattiene una risata.
A parte quest’episodio, tutto è ordinatissimo, pur nella città delle buche e dei cinghiali e dell’irrilevanza. Come in un patto segreto, son tutti d’accordo a far vedere il meglio che Roma oggi sappia esprimere. I funerali sono il nostro Expo, il nostro bosco verticale. Morire assai dolcemente, come la intro del più celebre romanzo ambientato qui. I vigili gestiscono l’ingorgo, i bodyguard son severi ma non troppo, il parroco don Andrea dice “per favore non applaudite, l’applauso non si fa in chiesa, dite piuttosto un Eterno riposo”, e poi spiega che la comunione si farà con due parroci davanti e due indietro, tipo annuncio di bordo.
Poi partono i ricordi: Enrico il fratello rilegge la lettera che ha scritto al Messaggero, e dice che “in questa vicenda ho perso sei zero sei zero, ma poi ieri ho incontrato Nicola Pietrangeli che mi ha detto, no, hai perso sei zero sei zero quaranta quindici, perché adesso Carlo ti farà vincere mezza partita”, e partono le lacrime e i battimani lo stesso, e soprattutto viene in mente tutto il dialogo di “Vacanze di Natale” tra Luca, l’erede Covelli, e Mario, il trucido “Torpigna” impersonato da Amendola (qui distrutto in lacrime). Il discorso di Carlo finisce esattamente alle 12 e scattano le campane e altri battimani. Tutto è perfetto in questa giornata dell’orgoglio romano; non sarà “London Bridge”, come per la regina Elisabetta, sarà un protocollo “Ponte Mammolo” o “Ponte Sisto”, o forse solo culo, o forse lassù qualcuno ama Carlo Vanzina.
Poi è il turno di Vincenzo Salemme, e poi di Carlo Verdone, che ricorda il rapporto tra i due fratelli, “una cosa mai vista prima” – effettivamente il vero vedovo è Enrico, tutto in nero con le chiome candide, la vedova biologica Lisa Melidoni è nell’altra navata. E, a pensarci, tutti i film dei Vanzina sono film di coppie di amici; Luca e Mario, Boldi e De Sica, Salemme e Ghini (le ragazze son solo decorative).
Poi parla Gigi Proietti (era Mandrake nei film di Steno e poi dei figli), e infine Malagò, che fa un discorso paterno: “quando avrete bisogno di noi ci troverete sempre dalla stessa parte senza dover neanche alzare gli occhi”. Poco dopo mezzogiorno finisce tutto, e per un attimo salta anche il protocollo. Tutti vogliono salutare la famiglia. Tutti piangono, o quasi. Perché nelle casse attacca “Sapore di mare”, ed è impossibile non commuoversi un po’: per Carlo, ma soprattutto per noi, per la nostalgia, per questa nostra estate. “A te l’abbraccio degli angeli”, dice il parroco. E se non è Los Angeles, ed è Roma, la città dei morti, quanto di meglio ha da offrire la città l’ha tirato fuori oggi. Forse anche l’anima.
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