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Dal mondo self a quello del selfie. Come siamo messi col “narcisismo di morte”

Antonio Gurrado

La trasformazione dello stile di vita individuale da trovata consumistica massificata a diritto imprescindibile. Lutto, dolore, ipocondria. Rileggere il saggio di André Green

Nel 1982, André Green aveva caratterizzato con la locuzione “moda del self” l’epoca in cui aveva originariamente pubblicato il proprio capolavoro, “Narcisismo di vita, narcisismo di morte”. Ora che Raffaello Cortina lo riporta in libreria, si può rileggere questo classico della psicoanalisi alla luce di ciò che in trent’anni siamo diventati: dal self al selfie il passo non è stato breve, con la trasformazione dello stile di vita individuale da trovata consumistica massificata a diritto imprescindibile; se ne può tuttavia ravvisare la radice comune nel narcisismo, concetto che da circa un secolo gode di alterne fortune. Freud, nel 1914, gli dedicò un rapido saggio che funse da intermezzo fra prima e seconda topica, ossia fra l’individuazione dell’inconscio come nucleo dell’Io e la teorizzazione di un principio distruttore sotteso all’Io e suo rivale. Questa svolta in termini pessimisti, complice la Grande Guerra, lo portò ad abbandonare di fatto la ricerca sul narcisismo che invece, per Green, dovrebbe essere il fulcro della psicoanalisi. L’uomo stesso si struttura grazie a un self che vive pensando a oggetti in modo continuativo, definendo così la permanenza dell’identità; solo che, come scrive Proust in un passo che Green cita con un certo orgoglio, quando l’Io “all’improvviso pensa a sé medesimo, trova solamente un apparato vuoto, qualcosa che non conosce”. L’Io narcisista libidinizza le pulsioni rivolgendole a sé stesso, senza considerare che l’Io consta della rappresentazione di oggetti esterni, altri da noi, ma non è a sua volta un oggetto rappresentabile.

 

Dunque: si può dire che viviamo in un’epoca narcisista? Se la cifra del narcisismo è la dichiarazione “io mi amo”, basta guardare la rilevanza commerciale data all’indulgere nella soddisfazione del proprio piacere o benessere per convincersene; non c’è nemmeno bisogno di ricorrere ai pittoreschi estremisti che hanno sposato sé stessi con regolare cerimonia. Rileggere Green tuttavia è utile a scavare più in profondo individuando un caposaldo delle nostre tendenze collettive nella “mimesi del desiderio”, ovvero nella disillusione dovuta alla perdita di un oggetto di desiderio (l’Altro) e alla presunzione che questa disillusione si reitererà, quindi tanto vale sostituire quell’oggetto con sé stesso (l’Uno). Il caso standard è quello del figlio unico che, notando piccolissimo la contrarietà di sua madre e colpevolizzandosene, dapprima disinveste nell’oggetto del suo assenso, ritiene insensata l’istituzione familiare, prova odio nei confronti dei genitori, si rifugia nell’autoerotismo o nell’anaffettività e (non necessariamente in quest’ordine) si rifà concentrandosi sull’attività intellettuale, specchio fantasmatico della scelta di giocare da solo. Alla base si trova un narcisismo che Green qualifica come negativo, non in termini di giudizio ma poiché nega la realtà giudicando più soddisfacente il sottrarsi alla relazione con un oggetto da cui può dipendere il rinnovo della disillusione primigenia. Con parole più nobili, lo si potrebbe definire ascetico, innamorato del mancato conseguimento di desideri che lo ancorerebbero al mondo.

 

Nella nostra epoca livorosa, troviamo almeno tre esempi di applicazione collettiva del narcisismo negativo. La più grossolana è l’aggressività nei confronti dell’autorità, che i social hanno reso ben più lampante rispetto ai tempi del saggio. Essa si fonda sulla volontà di godere senza inibizione soddisfacendo ogni pulsione e, come tale, si scaglia contro tutte le contemporanee reincarnazioni del padre primitivo, il cui ruolo gli consentiva di vivere “appartato e alieno a ogni bisogno”. La negazione dell’autorità e, in generale, l’annullamento del privilegio politico sono un caso di narcisismo negativo la cui incarnazione preclara è stata in questi giorni la festa per il taglio dei vitalizi, senza che a ciò corrispondesse la realizzazione effettiva o oggettiva di un desiderio dei celebranti. Più a destra si colloca un narcisismo identitario che estende l’Io a un ristretto gruppo chiuso e si alimenta del paradosso secondo cui “quest’appartenenza al sentimento di identità è ritenuta non egoistica”, di modo tale che il narcisista non comprenda come il ripiegamento identitario possa venire considerato crudele e non benefico: un’argomentazione tipica del sovranista intransigente è che non accogliere gli immigrati (l’Altro) è funzionale al benessere degli indigeni (l’Io camuffato da gruppo).

 

A sinistra possiamo collocare invece il narcisismo morale, basato sulla distinzione di Eric E. Dodds fra “civiltà della vergogna” e “civiltà della colpa”. Quest’ultima, tipicamente monoteista, riconosce l’esistenza di un desiderio oggettivo che causa una trasgressione a cui può far seguito il perdono. La civiltà della vergogna si basa invece su una legge del taglione definita da un padre totipotente, che si astrae in un’etica puramente formale, la cui applicazione inflessibile è la giustificazione del piacere che il narcisista trae dal leggere Kant mentre gli altri si sollazzano con le spogliarelliste. “Non appena c’è da rinunciare a qualche soddisfazione”, scrive Green, “il narcisista morale si offre volontario”. La sua posizione è quella del bambino che vuol essere riconosciuto adulto dai genitori aderendo pedissequamente al loro sistema di regole per mezzo dello scandalo, della delazione o (nei casi più estremi) della disponibilità a compiere crimini per dimostrarsi puro, come Bruto che pugnalò Cesare per amore della repubblica.

 

Merita un discorso a parte quello che potremmo chiamare il narcisismo gender, rimodernando una tendenza che Green sulle prime derubrica anacronisticamente a mitomania ma che ha a che fare con un più solido desiderio, come dice un suo paziente, di “non rinunciare a nessun vantaggio dei due sessi” e di porre la propria individualità al di là della cruda distinzione che la realtà impone con la definizione di maschio o femmina. Sexus, argomenta Green, deriva da secare, dividere con un taglio netto. Il narcisista è proprio colui che vuol fare a meno dell’essere calato nella realtà, facendo coincidere del tutto la realtà con sé.

 

Questo è forse il comun denominatore delle varie tendenze della nostra epoca: avere traslato il self da “cemento che mantiene l’unità costituita dall’Io” a strumento per rendersi padroni dell’Universo come di sé stessi (“Io sono il mondo e il mondo è me”, diceva una paziente di Maurice Bouvet, che oggi non si riterrebbe bisognosa di cure) rifugiandosi nella riduzione a zero degli investimenti nella realtà oggettiva. “Cancellare ogni traccia dell’Altro nel desiderio dell’Uno” è una forma estrema di difesa. Il narcisista identitario non riconosce l’esistenza del diverso, il narcisista antipolitico non riconosce l’esigenza di un’autorità, il narcisista morale dal ditino sempre puntato intende sostituirsi a Dio nel giudizio universale. Male ne incoglie: gli unici affetti noti al narcisista sono “dolore, lutto e ipocondria”, che vengono comunitariamente tradotti in protesta indiscriminata, rimpianto dei tempi andati e lamentela sulla società malata.

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