La sparatoria a Toronto e il sospetto dell'ennesima vendetta degli incel
Si moltiplicano gli episodi di violenza che hanno come protagonisti i “celibi involontari”. Se la misura dell’uomo diventa il suo valore sessuale
Roma. “E’ stato un incel” è un commento molto diffuso, sui social network, nelle conversazioni sulla sparatoria di domenica a Toronto. Incel significa celibe involontario ed è il nome di una specie di movimento, di community, di follia, che ha una missione precisa: vendicare ragazzi goffi o brutti o timidi che, non riuscendo a flirtare e fare l’amore, accusano le donne di privarli del loro diritto al sesso, e per questo le puniscono, a volte le ammazzano sparando nel mucchio.
Dalle autorità canadesi non c’è ancora nessuna indicazione sulla matrice dell’attentato: si sa solo che il responsabile aveva ventinove anni e ha sparato su Danforth Avenue, una delle strade più vivaci del centro, ferendo tredici persone, ammazzando una bambina di dieci anni e una ragazza di diciotto. Non è ancora chiaro se, durante lo scontro a fuoco con le forze dell’ordine, sia morto suicida o ammazzato da un poliziotto.
C’è una ragione se tanti canadesi stanno insistendo sugli incel, invitando ad accantonare il sospetto terrorismo islamico: lo scorso aprile, sempre a Toronto, uno studente venticinquenne, Alek Minassian, aveva ammazzato dieci persone, tra le quali c’erano otto donne, lanciandosi sulla folla a bordo del suo furgone. Poco prima aveva scritto su Facebook: “La ribellione incel è iniziata!”, promettendo di “distruggere” tutte le donne non disposte a far sesso a comando e pure gli uomini che hanno la fortuna di non essere rifiutati.
E’ un incel anche Nikolas Cruz, il diciannovenne che lo scorso 14 febbraio è entrato nel liceo che lo aveva espulso, in Florida, e ha sparato uccidendo 17 persone. E’ significativo che così tanti abitanti di una città occidentale, davanti a una strage, si sentano di escludere che dietro ci siano il terrorismo islamico – che fino a ieri ingombrava la serenità di tutti in modo pressoché totale – oppure l’odio razziale – che nelle nostre affollate analisi del populismo è il nemico numero uno.
Vuol dire che per alcuni gli incel sono più pericolosi dei terroristi islamici? Il punto vertiginoso di questo spostamento sta nel tratto che i primi condividono con i secondi: il riscatto che offrono alla crisi del maschile. La scorsa settimana il critico Adam Kirsch sul New York Times ha scritto che Michel Houellebecq, nella maggior parte dei suoi romanzi e soprattutto in “Soumission” (dove immaginava la conversione della Francia all’islam di stato), ha prefigurato gli incel.
La riflessione di Houellebecq, infatti, si concentra sui postumi della rivoluzione sessuale e sul modo in cui si è intrecciata con il capitalismo, producendo una società che non soltanto incoraggia la soddisfazione di ogni desiderio, ma in qualche modo la impone. Di conseguenza, non riuscire a fare sesso significa non essere all’altezza di una società intera e del suo potere più grande: trasformare un tabù in un obbligo. Questo passaggio dalla società del proibire il desiderio a quella della sua soddisfazione forzata era già l’intuizione di Pasolini in “Comizi d’amore” (1965): lo segnalò Foucault, anni dopo l’uscita del documentario. La violenza degli incel ha molto a che fare con tutto questo e definirla misogina rischia di minimizzarlo – d’altronde, gli incel ammazzano anche i maschi. Nello stesso pezzo pubblicato sul New York Times si citava l’opinione del chiacchieratissimo psicologo canadese Jordan Peterson, che studia il fenomeno degli incel da tempo: per lui, una soluzione al problema potrebbe essere la monogamia forzata.
E’ su internet che gli incel si incontrano, elaborano strategie e modelli, si scambiano suggerimenti su come rafforzare mascelle e muscoli, su come violentare una donna. Usano molto i meme: Slate li ha studiati e ha scritto quanto complesso sia distinguere tra quelli che ironizzano sugli “sfigati” e quelli che, invece, sono incitazioni allo stupro: è una delle cose che impedisce di valutare l’estensione del fenomeno. Quando discutiamo di matrici culturali della violenza sulle donne, dovremmo forse cominciare a ragionare su come il sesso sia diventato la misura del valore maschile, persino più di quanto già non fosse nell’Italia del “Bell’Antonio” di Brancati, al punto da produrre una mostruosa follia.
Politicamente corretto e panettone
L'immancabile ritorno di “Una poltrona per due” risveglia i wokisti indignati
Una luce dietro il rischio