Per fermare i lapidatori in chief non ci resta (per ora) che tracciare segni sulla sabbia
E' dall’avvento dei media elettronici, viviamo immersi nell’“oralità secondaria” e l'effetto è uno spaventoso contagio della violenza
Quando quei pii attaccabrighe degli scribi e dei farisei gli si fecero sotto con un’adultera da lapidare e una controversia legale da dirimere, Gesù si chinò a scrivere nella polvere con un dito. E’ una scena che si ripete tutti i giorni, non sette volte ma settanta volte sette. Si può dire che è lo schema occulto su cui si regge la macchina persecutoria a moto perpetuo che per inerzia tardo-illuministica continuiamo a chiamare dibattito pubblico: ti mettono sotto il naso un peccatore qualunque, potente o disgraziato, pensionato d’oro o migrante, gli appuntano sulla schiena il cartellino di qualche emergenza politica più o meno pretestuosa, di qualche cruccio giuridico più o meno cavilloso, e poi ti chiedono, petulanti: allora, non vieni a lapidarlo con noi? Che fai, lo difendi? La macchina funziona a pieno regime, e dopo anni di rodaggio sui social network e nei talk-show è arrivata al governo o alle soglie del governo in molti paesi, incluso il nostro. E il guaio è che nessuno, al di qua o al di là dell’Atlantico, ha ancora trovato il modo per mettere un granello di sabbia nell’ingranaggio, per sabotarlo o incepparlo.
Gesù in quell’occasione seppe fermare la mano dei lapidatori; e si vorrebbe sapere cosa scrisse nella polvere (secoli di commentarii a Giovanni hanno sbrigliato le congetture); ma più di quelle parole misteriose conta il gesto, l’accovacciarsi e il tenere gli occhi a terra. Dice san Tommaso che volle esibire ai linciatori la sicurezza del suo sapere, e mostrar loro che erano indegni perfino del suo sguardo. E’ quel che facciamo ogni giorno quando rispondiamo alle istigazioni alla ferocia con argomenti assennati o con uno sdegnoso silenzio che ci attira accuse di superbia; e mi sembrano, per questo, spiegazioni troppo umane. Preferisco, da biblista abusivo in bermuda, la lettura di René Girard: non è per scrivere che Gesù si china a terra, ma per evitare gli occhi iniettati di sangue dei provocatori. “Se Gesù ricambiasse il loro sguardo, questi uomini sovraeccitati, anziché interpretare il suo sguardo per quello che è veramente, lo trasformerebbero in uno specchio della loro collera”; dunque, per spegnere la miccia della reciprocità e fermare il contagio mimetico della violenza, Gesù ha cura di non incrociare quegli occhi ferini. L’espediente per nostra sfortuna non sembra avere applicazioni politiche immediate. Perché l’invito quotidiano alla lapidazione viene da troppo in alto, viene da Cesare, e a sfidarci sono occhi che è impossibile eludere – quelli dei presidenti, dei ministri, dei capipartito; ma anche perché la macchina persecutoria vortica a un ritmo così forsennato che non c’è modo di opporle una reazione contegnosa.
Questo ci riporta alla pericope dell’adultera. Sarà pur vero, come dice Girard, che a Gesù non interessa scrivere – eppure lui, maestro orale, in quell’occasione e solo in quella scrisse. Il dettaglio s’illumina se ricordiamo che la scrittura e l’oralità hanno un nesso antropologico stretto con i modi in cui può montare la violenza. Walter Ong – il gesuita canadese che metteva in bella copia le criptiche intuizioni di McLuhan – descrivendo la “psicodinamica dell’oralità” osservò che le antiche culture orali avevano un tono straordinariamente agonistico, fatto di continue battaglie verbali, sfide di vanteria, duelli di insulti reciproci. Il botta e risposta dell’oralità lascia sul campo un vincitore e un vinto; e se non trova valvole di sicurezza rituali, sfocia facilmente nel sangue. La psicodinamica della scrittura è diversa, è fatta di dilazioni, tempi di compensazione, repliche ritardate, tanto che Paul Valéry poté genialmente sostenere che tutta la letteratura è, per essenza, esprit de l’escalier: una risposta a un rivale escogitata quando non l’abbiamo più davanti nell’agonismo del faccia a faccia.
Non certo da oggi, ma dall’avvento dei media elettronici, viviamo immersi nell’“oralità secondaria”, come la chiamavano quegli studiosi di Toronto; e proprio social network come Twitter – lo strumento prediletto dai celebranti istituzionali delle lapidazioni e dalla loro volenterosa manovalanza – ne hanno esasperato e reso capillare la psicodinamica. Solo in apparenza è un medium scritto, ma è di fatto oralità trascritta: un succedersi di duelli selvaggi, senza alcuna regola di fair play neppure ai piani alti dove discutono studiosi, giornalisti, uomini di stato. Quel che conta è averla vinta con tutti i mezzucci eristici del caso, e una pseudo-oralità senza compresenza reale esaspera le proiezioni dell’odio: ciascuno, per così dire, vede nel tweet dell’altro lo specchio della propria collera. L’effetto è uno spaventoso contagio della violenza. Ma ora che gli untori siedono nei palazzi del potere, e da lì inoculano quotidiano veleno nel corpo sociale, non c’è modo di prevedere gli effetti né di arrestarli. Nell’attesa di capire che fare, non resta che chinarci a tracciare segni con un dito. E io avrei tanto voluto dire che ho scritto questo articolo sulla sabbia, ma – accidenti – non sono neppure al mare.
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