Per la procura Fausto Brizzi non è il Weinstein italiano
Chiesta l'archiviazione per le accuse di molestie. Chissà se dopo mesi di sentenze urlate sui giornali e sui social il caso del regista insegnerà che i processi si fanno nelle aule di tribunale
Per la procura Fausto Brizzi non è il Weinstein italiano (se neppure abbiamo lo star system, come pretendiamo di averne i mostri e gli orchi?). Gli inquirenti hanno chiesto l'archiviazione per le accuse di violenza sessuale perché “il fatto non sussiste”: il regista non ha stuprato le donne che lo avevano denunciato. Non ha molestato nessuno. Non ha ricattato nessuno. Non è l'uomo della cui vita sessuale, a un certo punto, i giornalisti sono andati a chiedere conto persino alla moglie Claudia Zanella, sotto casa, davanti al supermercato, seguendola ovunque andasse, sia che avesse con sé sua figlia sia che non. Claudia aveva scritto sul Corriere della sera per chiedere requie, per ricordare che anche quel tormento a cui la stavamo sottoponendo, tutti, era violenza sulle donne (“in questo caso, io e mia figlia”), che quella tempesta preventiva era inumana e assurda, che sarebbe stato suo diritto parlare privatamente a suo marito per chiedergli: caro, hai messo le mani addosso a una ragazzina? Mi hai tradita? Affidi le parti dei tuoi film in cambio di sesso, come un bavoso qualsiasi, come un personaggio minore di Woody Allen? Aveva anche scritto che bisognava mantenere la lucidità per distinguere avances e aggressione sessuale. Aveva ottenuto qualche manifestazione di solidarietà intimidita dall'obbligo di condanna coatta del maiale.
Erano i primi mesi, quelli più caldi, del #metoo, del dover credere alle donne sempre, del garantismo “roba ottocentesca” di Asia Argento: i mesi del peggior cascame culturale del decennio. Non sono mica passati: Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice femminista molto amata dalla “nuova ondata”, ha detto di recente senza nascondere l'amarezza, che un movimento come il #metoo non può (ancora?) permettersi di ammettere le sfumature, di pensionare il manicheismo, di non eseguire processi sommari.
Prima di finire in tribunale il caso Fausto Brizzi era già stato risolto con condanna praticamente definitiva dagli stessi media che l'avevano lanciato, tanto che sulla locandina del suo ultimo film, “Poveri ma ricchissimi”, era stato immediatamente rimosso il suo nome. E chi lo sa se la richiesta della procura di Roma sederà i sospetti: lo storico di episodi analoghi racconta di no – Woody Allen finisce sui giornali con cadenza quasi annuale per avere violentato sua figlia, sebbene perizie giudiziarie e mediche abbiano stabilito che è innocente – e su Twitter già spuntano i primi “quindici donne che raccontano di aver subìto molestie dallo stesso uomo, non avranno mai giustizia”. Chissà se Brizzi riuscirà a riabilitarsi, a dimostrare che i processi bisogna farli nelle sedi competenti e che le rivoluzioni culturali non si fanno sulla reputazione di nessuno. Riccardo Magi – che alle ultime elezioni ha sconfitto Dino Giarrusso, candidato del M5s nel municipio X di Roma – dice al Foglio: "Non possiamo non chiederci se la richiesta di archiviazione avrà la stessa visibilità e lo stesso clamore che ebbe l'accusa".
Lo ricorderete: a novembre scorso, il programma televisivo “Le Iene” aveva mandato in onda un servizio durante il quale molte ragazze, a viso coperto, avevano raccontato di essere state costrette a fare provini tra vasche idromassaggio e scrivanie e seggiole e gonfiabili dai quali, appollaiato come un Dioniso ubriaco, Brizzi le ricattava secondo lo schema classico della poltrona del produttore. Chi va al letto con il capo ottiene la parte; per chi non va a letto con il capo, la carriera nel mondo del cine finisce qui. Autore dell'inchiesta, dai metodi almeno discutibili, era Dino Giarrusso, che nelle settimane successive si era trasformato in un attivista femminista e aveva più volte dichiarato di essere disponibile a dare a Brizzi la possibilità di fornire la sua versione (quanta magnanimità per una pubblica accusa). Le accuse al regista si erano moltiplicate nei giorni successivi, secondo lo stesso copione hollywoodiano, ed erano circolate persino insinuazioni retrosceniste: “il regista amico di Renzi nella bufera”, “toh i porcelloni stanno a sinistra”, avevano titolato Il Giornale e Libero e tanto era bastato per far mormorare che l'attacco a Brizzi fosse uno scacco matto a Matteo Renzi (sarebbe un film meraviglioso, qualcuno lo giri, per favore). Ad aprile, Brizzi era finito nel registro degli indagati per episodi risalenti al 2014, 2015 e 2017: oggi è stato stabilito che era innocente e che il metodo Giarrusso è parecchio fallibile. Era tutto finto. O, se preferite, vero come la finzione.