Italiani popolo di spreconi (che si credono virtuosi)
Secondo una ricerca del colosso tedesco dei traslochi Movinga non abbiamo cognizione di ciò che compriamo e usiamo. Soprattutto per quanto riguarda l'abbigliamento
Il direttore del negozio di Montenapoleone che qualche mese fa, calcolando il contenuto dei guardaroba dei propri clienti, si angustiava sul proprio futuro con noi amici (“potreste vestirvi tutti per i prossimi cinque anni alla grande senza mai mettere piede qui dentro”), non sa quanto avesse ragione, o forse lo sapeva e per questo si torceva le mani spaventato.
Se mai i due vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini dovessero arrivare, come si dice, agli stracci, e fra Tav, bonus e vaccini potrebbe non mancare moltissimo, non ci sono dubbi che avrebbero a disposizione un’artiglieria infinita. Forse, se dovessimo continuare ad alimentare il progetto flat tax-Iva bloccata-reddito di cittadinanza-bonus 80 euro, fra qualche anno avremmo una realtà ben diversa su cui fare i conti, e un guardaroba, se non sfornito, di certo usato più di quanto sia adesso.
Per il momento, però, nella classifica degli spreconi mondiali di abbigliamento, wi-fi e mobili, noi italiani siamo ai primi posti. Lo siamo anche negli alimenti (questo potevamo pure immaginarlo ogni volta che scendiamo a buttare la spazzatura, specialmente a Roma dove abbiamo modo di rivederla a lungo e, dunque, di riflettervi sopra per giornate intere). La notizia davvero sorprendente è che ci percepiamo come consumatori economi, anzi virtuosi.
Secondo una ricerca mondiale condotta dal colosso tedesco dei traslochi Movinga su 18mila casi in venti paesi, il divario fra il nostro sciupìo percepito e quello effettivo per quanto riguarda l’abbigliamento è addirittura del 53 per cento. Siamo invece consci di buttare un sacco di cibo (la differenza è limitata al 5 per cento) e di non usare una buona parte dei mobili e degli apparecchi elettronici che possediamo (il 3 per cento).
Più “storditi” di noi, in Europa, paiono giusto i belgi e gli svizzeri (13 per cento il divario fra spreco percepito e reale anche in tema di alimenti ed elettrodomestici; rispettivamente il 62 e ancora il 53 per cento nell’abbigliamento) ma, non essendo francesi che con le barzellette sui belgi hanno compilato interi album, ci asterremo dal fare ulteriori commenti sui nostri compagni di sventura.
Tentando di volare alto sui nostri cumuli di cibo guasto e di abiti che non indossiamo da un bel pezzo (la domanda di partenza della ricerca è stata proprio questa: quale percentuale del suo guardaroba non indossa almeno da un anno? Le risposte spontanee sono state poi incrociate con dati del World Bank e di altri indicatori economici) i tedeschi di Movinga si sono appellati alle teorie di Leon Festinger, definendoci dei “dissonanti cognitivi”. Pare che lo siamo tutti: svizzeri e belgi e americani, gli americani soprattutto che, oltre a buttare più cibo non consumato di chiunque altro sulla faccia della Terra, sono anche quelli che meno se ne rendono conto. Storditi dalle pubblicità, dalle offerte tre per due, dai bibitoni gassati formato famiglia, ma anche dai mercatini del formaggio di malga e forse perfino dagli influencer con quel loro cambiarsi d’abito tre volte al giorno come le dame dei primi Novecento, noi abitanti di questa parte di mondo che se anche non lavora e non guadagna come vorrebbe di sicuro paga e pretende come il proverbiale “cumenda”, compriamo, accumuliamo, stiviamo e poi, forse vinti dai sensi di colpa, forse per disinteresse, entriamo in modalità erase. Cancelliamo la memoria.
Alzi la mano chi non ha scoperto di aver comprato due volte lo stesso libro (il primo non si trovava più, perso fra le librerie che occupano perfino i bagni, credevamo di averlo imprestato), chi ha acquistato in saldo l’ennesimo maglioncino grigio “che tanto serve sempre” e chi non ha buttato metà della provvista di fagioli in scatola, acquistata chissà quando in quantità da provvista di guerra e lì lasciata fino alla data di scadenza, anzi fino a rischio di esplosione della lattina. Del nostro comprare senza senso ci accorgiamo solo in un’occasione; quella che, non a caso, interessa a Movinga: il trasloco. Non c’è da stupirsi che ormai rappresenti la terza peggiore esperienza di vita dopo il lutto e il divorzio: nel giro di centovent’anni, il consumo vistoso di cui tanto si inorgogliva Veblen si è trasformato in una spesa scellerata, continua, dissennata.
Dice il team leader del gruppo tedesco Glenn Miotke che il mondo occidentale, comprendendo in questa accezione i giapponesi ed escludendo i russi che, invece, consumano parecchio ma sanno anche quando e che cosa buttano (forse un derivato dei sessant’anni di comunismo reale, chissà, non ce lo aspettavamo), ha davvero una percezione molto scarsa di quale sia il suo impatto sul mondo e la sua responsabilità nell’inquinamento globale. Il famoso footprint, per la maggior parte della gente equivale all’impronta dell’ultimo sandalo acquistato sulla sabbia della spiaggia più alla moda che abbiano potuto permettersi. Che il vintage e il riciclo siano l’unica maniera per venirne fuori l’ha capito perfino uno dei principali attori dell’accumulo, il fast fashion, che da qualche tempo rottama le stesse orrende magliette a nove euro e novantanove vendute pochi mesi prima in cambio di uno sconto sulle nuove orrende magliette eccetera o, nel caso di H&M, proponendo collezioni riciclate dagli scarti della plastica. Per molti, naturalmente anche italiani, si tratta di una nuova occasione per accumulare qualcosa, sentendosi molto à la page. Si chiede Movinga quando ci renderemo tutti conto che è ora di comprare di meno.
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