Gente di periferia
Dalla campagna alla città. La lunga rincorsa al futuro e alla modernità si scontra con i “guardiani del centro” che vogliono solo conservare
Sono un uomo di periferia – diceva lo storico dell’architettura Bruno Zevi – e dunque, mentre tutti sono (nella sostanza) uomini del centro storico, quindi sempre con la testa rivolta all’indietro, a pensare alla Roma barocca, rinascimentale e (in parte) medievale, lui si sentiva, al contrario, un uomo di periferia. E aggiungeva, sottolineando bene il concetto: un uomo di libertà. Dove libertà faceva rima con modernità: era un uomo che non si limitava allo studio della città antica (dove antica vuol dire anacronistica) ma vedeva, studiava, analizzava, provava a progettare, immaginare la città nuova. E quella per forza doveva partire dalla periferia, anche perché (altra sottolineatura) la periferia è (l’abbiamo detto) modernità, libertà ma anche, e soprattutto, disordine e anarchia. Qui Zevi era molto chiaro, perché tutta la sua poetica si è fondata su questa contrapposizione: il disordine è libertà, l’ordine è militare, è imposto.
Ordine contro disordine è uno di quei concetti ontologici che vale proprio la pena esplorare: all’inizio era l’ordine (non il caos), bassa entropia (se fossimo vissuti a quei tempi, gli osservatori vi avrebbero visto un sistema ordinato) poi si sa, per legge naturale (ancora misteriosa) il sistema va verso il disordine. Se l’ordine è un punto di partenza (pare necessario) il disordine è lo stato finale del sistema, ma a ben vedere la vita non sta nella bassa entropia iniziale e nemmeno nell’alta entropia finale, ma in un punto di mezzo (ancora non ben precisato).
Tuttavia, se a prescindere dalla suggestione dell’ontologica astrofisica, a seguire Ludwig Boltzmann si rischiano errori grossolani (rischiano anche gli addetti ai lavori, figuriamoci io), la contrapposizione centro (ordine e ordine militare) e periferia (disordine e libertà) è fonte di interesse, rappresenta, come dire, un certo modo di guardare il mondo: quelli con la testa rivolta all’indietro ad ammirare, conservare, a volte presidiare anacronisticamente i monumenti del tempo che fu, e quelli che si perdono con un certo fascino nel disordine. Quindi i primi si fanno afferrare per pazzi se qualcuno, molto velatamente, avanza ipotesi di trasformazione del centro (una volta è un grattacielo, una volta uno Starbucks, altra volta un Bingo), i secondi tendono a credere che lo spontaneismo sia sempre vitale. Per i primi il centro è, simbolicamente parlando, la strada maestra. I suoi canoni vanno insegnati, tramandati, anche perché se non segui quei canoni non entri nel circolo che conta.
Due modi di guardare il mondo: quelli con la testa rivolta all’indietro e quelli che si perdono con un certo fascino nel disordine
Allora, appunto, probabilmente c’era un codice culturale elaborato da quelli che frequentano il centro – e sì, stanno sempre con la testa rivolta all’indietro a parlare del barocco e a difenderlo dagli aggressori di periferia, come me. Capite bene che questo presunto codice, che fa di me un uomo del centro con i controcoglioni del caso, cioè uno che riesce ad analizzare Van Gogh perché ha gli strumenti giusti, se rischia di cristallizzarsi nel suo ordine primordiale, diventerà anacronistico ed esclusivo: muore, non si evolve. Ci saranno dei guardiani che faranno il loro mestiere, in genere terranno lontani un po’ tutti: così la cultura diventa, come lasciava intendere Bruno Zevi, ordine imposto. Poi è chiaro che se arrivano i barbari dalle periferie, alcuni vestiti con felpe verdi, o ci spaventiamo o proviamo simpatia. Di nuovo la contrapposizione centro/periferia si fa sentire. Con chi stiamo noi? Col centro o con la periferia, con le felpe o col cashmere? Villetta bifamiliare o attico, Casio o Rolex?
E’ pur vero che quelli di periferia poi si siedono al centro e si trovano molto bene nei nuovi attici. Ed è anche vero che quelli del centro, in crisi per i recenti risultati elettorali, ogni tanto vanno in periferia o gridano nei convegni: torniamo in periferia. Poi il viaggio si traduce in un paio d’ore, una camminata, il tempo di farsi vedere dai tipici borgatari, raccogliere qualche indicazione di massima e poi addio, va bene così, se ne parla – se Dio vuole – alla prossima campagna elettorale. Centro e periferia diventano squadre e pure i nostri migliori e amati intellettuali, si sa, alla fine sono tifosi, e nella caciara del tifo, nella comunione che provi con i tuoi simili (siano di centro o di periferia) quando canti gli slogan, nel bailamme, mica ti interessa capire cos’è il centro e cos’è la periferia, come puoi lavorare sull’uno o sull’altro. Ma dài che ti importa, ti interessa solo preservare il tuo ordine discreto, la tua poltrona, la tua vista, che sia dall’attico (in attesa di sanatoria) o dal balconcino (abusivo).
L’architettura è stratificazione. A forza di conservazioni imposte dai guardiani della cultura, i monumenti del centro sono morti
La verità è che sia l’ordine sia il disordine, sia il centro sia la periferia stanno diventando dimensioni troppo complicate per i nostri cervelli che si sono formati nel paleolitico – e tra l’altro stanno ancora là. Dimensioni così complicate che per capirle ci vogliono anni di studio, osservazioni, frequentazioni, condivisione dei dati… Ma con i nostri tempi televisivi, dobbiamo andare in onda, dire la nostra, far vedere che ci siamo, eccome se ci siamo, ho i follower e perciò non li posso tradire, né confondere, guardate ho la felpa, ho il Rolex. Alla fine, che noia, che rottura. Se per cominciare a lavorare si potessero eliminare tutti i talk-show televisivi, vero inquinamento culturale di questi anni, con questi tifosi sempre all’erta, accesi, online, la provocazione coatta che poi viene ripresa, rimandata mille volte e diventa virale, ah, se si potesse spegnere per sempre la viralità, forse potremmo anche cominciare a discutere di centro e periferia.
Vabbè, ricominciamo con calma? Sono un uomo di periferia, diceva il grande Bruno Zevi. Pure io lo sono stato. Cioè c’ho abitato, da giovane a Caserta, in un quartiere che allora era di periferia (ora è centro), in vacanza andavo alla periferia dell’Italia, in Calabria, in un posto così selvaggio, che una volta ci trovammo allagati per un’onda. Non era uno tsunami, le case erano abusive e troppo vicine al mare, si allagavano per un nonnulla, in compenso mi tuffavo dal balcone. Poi dall’89 a Roma, quartieri di: Cecchignola, Laurentino, Pigneto (che allora era periferia, e quando dicevo che abitavo al Pigneto la gente diceva: ah! Come a dire, ti compiango.
Appena me ne sono andato il quartiere è diventato fico, ora tutti dicono: ah! Cioè: che bello!), Togliatti, Prenestino (largo Telese), Tiburtino, Torre Angela, Borghesiana, durante un rovinoso periodo sentimentale della mia vita. Poi Monteverde, Donna Olimpia, vicino alle case popolari del ’30. Quindi periferia di Monteverde: dovreste vedere la frustrazione e la rabbia di alcune persone, disoccupati, nullafacenti, ludopatici, alcolizzati, psicotici, affollare di mattina il bar, parlare di Salvini e mangiare maritozzi con la panna, aspettare l’ultima estrazione del lotto, affossarsi nelle sedie, con i figli obesi in braccio e dovreste vedere il contrasto con i runner che scendono da Monteverde nuovo, parlando di Salvini ma correndo, belli, tonici, scattanti e nervosi verso villa Pamphilj.
La prima e credo l’unica cosa che ho capito, proprio sulla mia pelle, è che il centro si distingue dalla periferia perché il centro è distante dalla periferia. Se ci fosse l’alta velocità questa distinzione andrebbe finalmente a puttane. Ah, se davvero i contestatori nostrani fossero più raffinati, allora promuoverebbero non una rivoluzione permanente ma una Tav permanente. Cosa si dice a Roma per non ammettere la triste verità? Guarda, io da casa al lavoro ci metto venti minuti. La più grande rimozione collettiva di cui sono al corrente. Una volta, ascoltando i discorsi delle persone, ho elaborato una mappa dei venti minuti: venti minuti in treno dai Castelli al centro, venti minuti di autobus da Montesacro a porta Pia, venti minuti esatti di metropolitana dall’Eur alla stazione. Una mappa piena di errori.
Con chi stiamo noi? Col centro o con la periferia, con le felpe o col cashmere? Villetta bifamiliare o attico, Casio o Rolex?
A Roma, nessuno ci mette venti minuti per andare al lavoro. Quando abitavo sulla Prenestina, a viale Telese, e prendevo il tram, giusto venti minuti, m’avevano detto. Ora, a parte il fatto che sul quel tram sono svenuto due volte per troppa calca: la prima volta caddi sul grembo di una deliziosa vecchietta, che mi cedette pure il posto, e mi disse: forza, fino a Termini so’ solo venti minuti. La seconda volta riuscii a scendere, e poi mi accasciai sul marciapiede. L’edicolante che mi soccorse mi disse: meglio a piedi, fino a Termini ci metti una ventina di minuti. Comunque avevo scoperto che da viale Telese a Termini con il 516 ci volevano 55 minuti.
Ero appena giunto a questa conclusione e mi stavo rassegnando, quando un mio collega mi disse: ti conviene prendere il trenino della Casilina: il percorso è protetto, ci metti giusto venti minuti. Dunque, seguii il consiglio e passai al trenino. Ora, il fatto è che quel trenino proprio non camminava: c’era stato, in passato, un errore di progettazione, i vagoni sono molto pesanti, tanto che nei tratti in salita, quando i binari sono bagnati, il treno slitta. Si rischia di dover scendere e spingere. Ma lasciamo stare. La cosa terribile è, invece, che ferma alle laziali che è, come dire, una stazione trompe l’oeil. Un inganno. Ti sembra di essere a Termini e invece: fatti almeno mezzo chilometro a piedi! Altri venti minuti.
Ecco perché la gente che frequentava quel trenino stava così nervosa. Si capisce che quando arrivi al centro sei così nervoso che il mondo ti sembra una merda. Accumuli invidia e frustrazione, siccome sei stato a stretto contatto e per svariato tempo col tuo prossimo, ora vuoi la morte del tuo prossimo. Tu vieni, faccio per dire, da Torre Angela. Dove le strade hanno nomi di fossi, sono infatti ex fossi diventati, si fa per dire, strade. Strade senza marciapiede, a case seguono case, l’orizzonte è piatto. Tutto è schiacciato sulla prospettiva minima, c’è un'omogeneità percettiva, l’assenza dello spazio pubblico è così evidente che ti disabitui al prossimo, quindi la casa, recintata a filo strada – se esci dalla porta puoi finire sotto la macchina – quella casa sembra, a volte diventa, un apparato difensivo: ti difendi dal prossimo tuo. E quindi vieni da Torre Angela – un luogo dove di notte non c’è inquinamento luminoso. No davvero, è tutto buio.
Le uniche luci sono quelle dei bus che passano – e poi vedi senegalesi, nigeriani, ghanesi che corrono a lunghe falcate per prendere l’autobus, o persone che aspettano, avvolte dal buio, la luce dell’autobus. Per trovare luce devi andare lungo la consolare, lì le insegne sono colorate. Devi andare a cercare quei bar (fantastici) aperti tutta la notte, aggregazioni di esseri umani di nazionalità diverse, meravigliose cantilene notturne, cittadini di campagna che dopo tanto vagare al buio si sono incontrati per una birra, un affare, un corteggiamento, o per ubriacarsi, e in culo a tutto questo. Insomma vieni dal buio, dal prossimo tuo, troppo, eccessivamente prossimo, sei uno che rientra nelle statistiche dei World urbanization prospects che dicono: cari Salvini, Fusaro, Montanari, Martina e compagnia cantante nei talk televisivi, le chiacchiere stanno a zero, la città è il futuro, e non i borghi, la campagna, i paesi: la città.
Le persone pensano alla città, riprendendo in un certo modo la dichiarazione di Bruno Zevi, la campagna è l’ordine imposto (non i ritmi delle stagioni, ma povertà dovuta ai ritmi delle stagioni, e tanto, tanto controllo sociale), la città, invece, è libertà. Per questo arrivano dalla campagne e affollano le periferie delle città, stipandosi, per esempio, a Torre Angela ma non solo (quanti ciociari e campani lungo la Casilina, quanti marchigiani lungo la Salaria, e così via, i nostri nonni che hanno cercato la libertà nelle città e hanno costruito case da baracche, appoggiandosi a volte agli acquedotti romani, per risparmiare e non tirare su un muro) e inseguono a larghe falcate il bus nella notte o cercano refrigerio nei bar lungo la consolare.
Il centro è distante dalla periferia. Se i contestatori nostrani fossero più raffinati, promuoverebbero una Tav permanente
Che facciamo? Voglio dire oltre alle tifoserie e a quelle dichiarazioni contro questo e quello, tipiche del trombone del centro (anche se è di periferia)? Come lavoriamo insieme e non in antitesi? Colin Ward – un filosofo anarchico ma pragmatico – quando gli chiesero cosa fosse per lui il pensiero utopistico rispose: si occupa di una sola cosa, la città, come e per chi costruirla. Insomma, Colin Ward parlava di infrastrutture, e sì, possono semplificare la vita di quelle due persone al secondo che si trasferiscono dalla campagna (la periferia del mondo) alla città (il centro) per provare a cambiare passo. Ora, io non so Colin ma sarei proprio per le Tav e per tutte le opere (piccole e grandi) che rendono la città viva, voglio dire, contemporanea a me: dunque viva finché io sono vivo.
Perché i monumenti del centro spesso a forza di conservazioni coatte e imposte dai guardiani della cultura che sorridono solo quando si parla di preservare, quei musei sono morti. E forse devono giustamente continuare a morire, dissolversi, com’è nell’ordine naturale, cioè integrarsi con altri segni e modi e culture. E’ sempre stato così, l’architettura cosa altro è se non stratificazione? Insomma se fa il suo dovere, strato dopo strato accoglie, sperimenta, innesta. Cosa accoglie? Cosa innesta? Cosa sperimenta? Le larghe falcate di quelli che corrono nella notte o si ubriacano nei bar lungo la Casilina. La bellezza – dice l’architetto Beniamino Servino – è familiarità più meraviglia.
Ogni gruppo ha la sua famiglia e quindi un linguaggio architettonico specifico che rende familiare e prossimi, riconoscibili quei segni. Per renderli meravigliosi bisogna lavorarci su. Una cava, un muro scrostato, una torre dell’acqua, una pennata (l’elementare tetto spiovente che vediamo proteggere materiali e scorte nelle campagne desolate), una tipologia abitativa pur abusiva, alcuni snodi ferroviari, sono elementi familiari in alcuni periferie. Meglio riconoscerli e potenziarli, invece che offuscarli. Meglio che le periferie capiscano e comprendano e utilizzino il loro lessico, così che possano presentare il loro linguaggio a quelli del centro e discutere alla pari.
Meglio questo che sentire i consigli dei guardiani del centro. Altrimenti l’unico rapporto tra centro e periferia si risolve nella finta pacificazione degli opposti. Un esempio di questa pacificazione? Gli orti urbani. Per carità, niente polemiche agronomiche. Il fatto è che le tensioni invece di essere annunciate, descritte, manifestate e portate, caoticamente e vitalmente, in superficie, vengono calmate con queste strisce di terra che segnano il confine tra centro e periferia. E’ questa la rivoluzione delle periferie annunciata e proclamata: pensionati che innaffiano la scarola? Tutto qua? Sarebbe come dire che a Roma, A Milano, o altrove, da un posto all’altro ci vogliono solo venti minuti. La rimozione non fa architettura, neanche cultura.
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