Le giornaliste sexy sono diventate un problema. Eppure è solo cinema
Vietato levarsi le mutandine per uno scoop
Roma. Di ridiscutere cinema e serie televisive non si finisce più ed è merito (colpa) del #metoo, della disintermediazione, del mondo che chiede trasparenza e realismo, essendosi scocciato di sognare (costa fatica e, quando non traumatizza, lascia l’amaro in bocca, che è un trauma un po’ peggiore). Prendete le giornaliste: dice l’Atlantic, riportando all’attenzione un tema discusso spesso negli ultimi anni, che il cinema americano le dipinge quasi esclusivamente come poco professionali, imprecise, farfalline, privilegiate e soprattutto allegrone pronte a levarsi le mutandine per uno scoop (film con Meryl Streep: omissis).
Dunque, più nel giornalismo reale le donne conquistano potere e più in quello cinematografico vengono ridotte a macchiette. Oltre al sempiterno impatto sessista, la cosa avrebbe, stando sempre all’Atlantic, la conseguenza d’inquinare l’immagine delle giornaliste. Insistere sul baratto del corpo e sulla spregiudicatezza sessuale, soprattutto, creerebbe nell’opinione comune l’idea che nei giornali lavorino quasi solo femmine fatali, anziché integerrime professioniste. Uno dei rari esempi di giornalista credibile (nel senso che assomiglia a una redattrice o a una freelance come quelle che potresti incontrare davvero) è la Rory Gilmore del reboot, in quattro puntate, della serie “Una mamma per amica”, che Netflix ha prodotto e trasmesso un paio di anni fa: talentuosa, molto preparata, molto bella e tuttavia insicura, precaria, spesso inadeguata, perfino noiosa. Niente a che fare con le signorine disposte a tutto di “House of Cards” (ricorderete che Kevin Spacey finisce a letto diverse volte proprio con una giornalista e né lui né lei lo fanno per amore, bensì per reciproco interesse: di lui nel controllare le notizie che lei diffonde e di lei nel soffiargli i retroscena della Casa Bianca). A luglio, negli Stati Uniti, è cominciata “Sharps Object” (che vedremo in Italia a partire da settembre prossimo), la cui protagonista è una giornalista che, pur non essendo fortemente sessualizzata (scusate la parola), è nevrotica, emotiva, distratta dalle sue beghe familiari e, a volte, anche pasticciona (certo, mai come Bridget Jones che precipitava di culo sulla telecamera con la quale avrebbe dovuto filmare un reportage mozzafiato su una caserma di pompieri). Il New York Magazine, a proposito di “Sharps Objects”, ha scritto che, sebbene non abbia alcun intento documentaristico, la serie contribuisce comunque a peggiorare la già pessima reputazione che delle giornaliste (e dei giornalisti e del giornalismo) sta diffondendosi negli Stati Uniti. In Italia non ce ne preoccupiamo, forse perché abbiamo tutti ancora dentro Oriana Fallaci, l’irrecusabile, e magari anche perché i giornali – dicunt – sono reami patriarcali, pertanto prima c’è da abbatterli e poi ci porremo il problema della loro rappresentazione (la scrittrice Michela Murgia, per diverse mattine, quest’anno, s’è presa il fastidio di controllare quante firme di maschi e quante di femmine ci fossero sulle prime pagine dei quotidiani italiani più venduti, presentando tutte le volte il referto, molto personale, di una discriminazione ai danni delle donne).
Promosso a pieni voti dall’Atlantic è, invece, il lavoro di Liz Garbus in “The Fourth Estate”, documentario a puntate sul New York Times, dove non ci sono donne in bilico tra lo spionaggio e il mercimonio di sé, tra lo sfavillio della mondanità e la collusione con i potenti più cattivi della terra, ma solo semplici redattrici che non hanno il tempo di rifarsi lo smalto, di allevare le figlie, di preparare la cena e che vivono tumulate dentro le redazioni, passano ore e ore al telefono, al computer, tra gli archivi.
“I giornalisti sono gli individui più noiosi e meno affascinanti della terra”, scrisse Esquire qualche anno fa, quando si cominciava a sviscerare la questione. Ed è vero: le redazioni non hanno niente di epico, sono eccitanti solo per chi ha come perversione l’aggiornamento della homepage delle agenzie, comprese quelle finanziarie – e siamo in tanti, scusate, e ci nascondiamo di notte per paura degli automobilisti. E’ per questo che i registi hanno calcato la mano, per raccontare chi ci lavora dentro. Nel mondo che ci affrettiamo a ripudiare, i registi erano felici di dirsi fregnacciari (l’aggettivo che meglio di tutti Fellini sentiva calzargli): volevano farci sognare, mai e poi mai avrebbero creduto che, per questo, li avremmo rimproverati d’intossicare la realtà.