Ditemi che sono bella
Vedo nudo. Instagram e Facebook hanno portato all’ossessione per il selfie vanitoso e in cerca di approvazione
Il post è poetico. “La luce del sole sull’acqua del mare”. Il mare, però, si vede quasi per niente perché in primo piano, fra le onde, spuntano invece le cosce dell’autrice, roride di impertinenti goccioline d’acqua. Infatti, nessuno si inganna: “Quanto sei bella!”, “splendida”; “wow”; i più maliziosi: “Che bel panorama…”. Segue cascata di cuoricini emoj in risposta, ovviamente senza ulteriori accenni al mare. “Grazie per la bella festa di ieri sera”, scrive un’altra, pubblicando una foto taglio mise en abime sul décolleté, esibito come si conviene per un party estivo di cui, però, sembra essere l’unica partecipante. Siamo stati esclusi da ogni narrazione visiva se non da quella di un paio di tette strabordanti, di cui la proprietaria accoglie il tripudio di pollici alzati e lingue penzoloni a commento con il sussiego di un’attrice consumata e lo sviamento di prammatica: “Grazie per la simpatia”. Una terza conoscente posa a sirena in costume intero sgambatissimo su un muretto. La didascalia a corredo avrebbe entusiasmato i Surrealisti: “La gioia di una domenica dai nonni”.
Vogliamo sentirci sexy. Non solo tutti cercano il loro profilo migliore, che sarebbe anche naturale. Posano, e c’è una bella differenza
La bellezza, qualità elitaria distribuita secondo criteri insondabili e poco manipolabili nonostante gli infiniti tentativi, anche criminali, se ne infischia del politicamente corretto e del mantra dell’attrattiva individuale, sei-bella-come-sei e tu-sì-che-vali. Il suo tentativo di soggiogarla è un istituto sociale, e anche relativamente recente, perché fino all’avvento della società dei consumi e della vendita di cosmetici, guaine e sogni alla portata di tutti, l’apparenza era un fatto dirimente e apodittico. Belli. Brutti, senza via di scampo. Da quando il selfie o la fotografia scattata dal marito/moglie/amante /amico paziente sono diventati un metro di verifica della nostra popolarità, e questa direttamente collegabile alla nostra autostima, abbiamo imparato a risucchiare l’ombelico fino alle costole come non erano riusciti a fare tre anni di sessioni di Pilates. Vogliamo tributi pubblici alla nostra bellezza, nessuno escluso e a ogni età. Vogliamo sentirci sexy, desiderabili, irresistibili come Beyoncé, che dopotutto sarà mica una silfide. Non dovendo più ingaggiare un fotografo professionista per imitarne le pose, ci sembra improvvisamente un obiettivo alla nostra portata, e piazzarci a gambe aperte su un trespolo del tutto giustificabile anche se la mattina insegniamo latino al ginnasio. Basta scorrere Instagram o Facebook per avere la prova che anni di battaglia contro gli stereotipi della bellezza occidentale sono falliti e che la forza riproduttrice della natura ha vinto. Non solo tutti cercano il loro profilo migliore, che sarebbe anche naturale e ci mancherebbe. Posano, e c’è una bella differenza.
L’intensità del battimani, cioè il numero dei like, è direttamente proporzionale al potere di chi pubblica la propria immagine
Fino a un minuto prima che Facebook e Instagram prendessero possesso delle nostre vite insieme con il bastone da selfie, ci limitavamo a scattarci un paio di foto in vacanza d’estate e l’immaginetta natalizia sotto l’albero con figli e nipoti a imitazione della regina Elisabetta a scopo augurale. Ora, anche se non postiamo immagini di noi stessi per lavoro come Chiara Ferragni o come Paola Turani che ha appena calcato il tappeto rosso di Venezia nelle vesti dell’attrice che non è e indossando l’abito così così dello sponsor che ce l’ha mandata, abbiamo fatto tutti l’abitudine ai tre-quattro selfie di “prova”, come le Polaroid ai tempi di “Sotto il vestito niente”. Verifichiamo i contatti con puntiglio professionale (“dici che è troppo esposta?”; “dài rifacciamola”) e, quando ci riteniamo soddisfatti, postiamo, in attesa della stessa rassicurazione che, da piccoli, cercavamo nella mamma, titubanti come Calimero, e che oggi chiediamo anche a chi non abbiamo mai incontrato, perfino a costo di filtrare l’immagine in cinque fasi successive o di sottoporci a tre cambi d’abito al nostro stesso funerale come Aretha Franklin, il Signore l’abbia in gloria con la sua bara placcata oro, le sue Loubutin in raso rosso e il titolo che le ha dedicato il New York Post in prima pagina: “Going in style”, sopra l’immagine di lei nella camera ardente fra i pizzi mentre sullo sfondo, in prospettiva, appare un muro di cellulari accesi.
Anche se vincenti, affermati, anzi soprattutto se tali, all’omaggio al nostro aspetto teniamo sopra ogni cosa (un vecchio manuale di bon ton lo consigliava ai mariti che volessero far carriera: fate sempre complimenti ai vostri superiori per il loro aspetto, non per la loro bravura), usandolo perfino come controprova del nostro potere e della nostra presa sui destini altrui. Vogliamo i nostri ragioner Fantozzi a batterci le mani e a scappellarsi al nostro passaggio: “Che bel direttore è lei”. Collaboratori, debitori, questuanti, aspiranti amanti, o dipendenti, o amici: verifichiamo chi abbia cliccato un like e che tipo di commento abbia eventualmente postato. Avrete certamente notato che l’intensità del battimani, cioè il numero dei like, è direttamente proporzionale al potere di chi pubblica la propria immagine: d’altronde, l’imperatore ha sempre vestiti nuovi, e un’apparenza divina. Ce l’hanno, in gradiente minore, anche i suoi protetti, i famigli e gli animali di casa: la cagnetta birichina, la nipotina grassottella, la nonna con la permanente a ricciolini color pervinca, anche lei salutata da un tripudio di pollici alzati ed espressioni di meraviglia da parte di gente che la sua, di nonna, andrà a trovarla forse due volte all’anno. I social sono il nuovo specchio di Grimilde; di certo, sono più acquiescenti di lui che ogni tanto storceva la bocca e che comunque finiva per mettere la piccina dai capelli neri come l’ebano sulla strada della matrigna in declino.
Chiediamo consensi anche con la foto postata di prima mattina davanti allo specchio del bagno. La prova estrema di essere amati
Credevamo di esserci liberati dalla dittatura della bellezza. E’ vero il contrario. Chiediamo approvazione anche dalla foto postata di prima mattina davanti allo specchio del bagno, ancora con la faccia lucida. Il limite estremo è quello: se mi dicono che sono bella anche così, non ci sono più dubbi che lo sia davvero, e che io sia davvero amata. Ci vuole una gran forza per non cedere alla malia del filtro Perpetua, l’equivalente della calza di nylon sull’obiettivo di cui si diceva facesse grande uso Silvio Berlusconi, in un mondo che ricompensa il post dei belli e famosi a suon di milioni, una grandissima personalità per accettare la propria “mancanza di grazia” come Rahel Varnhagen, la madame de Stael dell’illuminismo tedesco, che una mattina del 1815 accolse l’idolo del momento che bussava al suo attico per conoscerla, Johann von Goethe, senza nemmeno pettinarsi “per non farlo aspettare”, certa che un toupet non ne avrebbe migliorato l’aspetto.
Più siamo insicuri, più postiamo selfie, più ce la leghiamo al dito se non otteniamo risposta. Mentire, per quieto vivere e buona educazione
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