I nostri primi quarant'anni
“E adesso tutti mi chiamano signora. Certo sarebbe peggio signorina”. Patrizia Cavalli, Pamela Druckerman, e Kant che mi tiene sveglia la notte perché è questo il momento della vita in sé
Capisci di avere quarant’anni quando ti innervosisci mentre fai scorrere il cursore cercando l’anno di nascita nel check-in online
Capisci di avere quarant’anni quando: ti innervosisci se facendo il chek-in online devi far scorrere troppo il cursore per trovare l’anno di nascita. Ti stupisci se una commessa ti consiglia una crema antirughe, e subito dopo esserti stupita, desideri ucciderla. Per dormire non basta più lanciarsi a letto, e stai progettando di comprare un cuscino costoso. Quando guardi Il laureato ti identifichi con Anne Bancroft (o con i genitori). Quando guardi Sapore di sale ti identifichi con Virna Lisi (o con i genitori). Diventi amico della tua professoressa di Greco al liceo e dici a tutti quanto è ringiovanita. Hai cercato su Google tutte le persone che hanno avuto qualche importanza nella tua vita, ma a volte te ne dimentichi e li cerchi di nuovo. Hai smesso di contare le persone con cui hai avuto una specie di storia. Se invece provi a contarle, non ricordi i nomi. Per un lungo periodo sei stata la più giovane del gruppo; all’improvviso sei la più vecchia. Perdoni tutti, sempre, e non ricordi nemmeno perché avresti dovuto perdonarli. I tuoi piedi sono misteriosamente cresciuti di almeno mezzo numero. Le gente non è più sorpresa di sapere che hai due figli abbastanza grandi. La commessa, quella che non hai ucciso perché perdoni tutti, dice: signora. Il tassista urla: signora. Il portiere sorride: signora. Tutta la città grida in massa: signora!
Ho mescolato le mie osservazioni di quarantenne (quarantatré anni compiuti) a quelle di Pamela Druckerman, giornalista e scrittrice americana che sull’avere quarant’anni ha scritto un saggio, molto apprezzato in America e appena tradotto da Paola Bertante per Sonzogno. Il libro si intitola: Non si diventa mai adulti. E altre cose che ho impiegato quarant’anni a imparare e io posso parlarne solo passando dal suo sguardo al mio, perché l’ho letto in un momento della mia vita (agosto, in treno, andando a prendere o a portare i miei figli, o forse il cane, da qualche parte al mare oppure a Roma) in cui sentivo nemmeno troppo confusamente che qualcosa era cambiato.
Un saggio sui quarant’anni e sul non diventare mai adulti: le due cose stanno pericolosamente insieme e aumentano l’insonnia
La conseguenza più superficiale ed evidente era questa: il mio desiderio, in quel preciso momento, era un’intera notte di sonno, sette ore filate, andare a letto la sera, col buio, dire buonanotte e svegliarmi la mattina dopo, con la luce del giorno. Non mi succede da tantissimo tempo. Mi era già capitato in altri periodi di avere questa insonnia sfinente (più o meno quando i miei figli hanno smesso di svegliarsi la notte io ho cominciato a non dormire) e l’avevo detto a mio marito: mi sveglio ogni notte alle tre e sedici, sempre alle tre e sedici, e non dormo più. Lui non rideva per le tre e sedici, diceva solo: è perché hai compiuto quarant’anni. Mi infuriavo: ma che c’entra, che dici, come ti permetti, non capisci niente, ti odio, e non gli parlavo per una settimana. Ho smesso così di dire: non dormo, e anche: mi fa male qui, oppure: ho la febbre, perché qualunque cosa, anche un livido enorme sulla coscia perché ho sbattuto contro lo spigolo della scrivania per lui è sempre: i quarant’anni. Forse me lo diceva anche quando ne avevo trentasei (del resto a trentasei Simone De Beauvoir andava in giro in bicicletta per Parigi senza un dente davanti, perché era caduta, e diceva che non le importava di questo dente mancante perché ormai aveva trentasei anni). Mio marito lo dice con una specie di soddisfazione, di trionfo, gli piace che io non sia più giovane come quando ci siamo conosciuti (avevo venticinque anni) e allora io per dispetto ho deciso di ignorare per sempre questi quarant’anni e anche tutti gli anni che, spero, verranno dopo.
Ma poi, l’insonnia. I pensieri giganteschi la notte, il cuscino sempre più scomodo, camminare per la casa silenziosa, l’alba dalla finestra, l’umiliazione di dire: scusate, perdonatemi, per me niente vino bianco ghiacciato buonissimo stasera, sennò non dormo. Ma poi, non è l’insonnia. E’ la sostanza dei pensieri, è il tempo che è già passato. Leggevo questo libro sui quarant’anni in treno e sottolineavo furiosamente mentre i miei figli mi parlavano. Mia figlia dice che quando leggo e loro mi parlano io alzo gli occhi, li guardo senza espressione, e poi riabbasso gli occhi senza rispondere. E’ vero. Ma se non mi parlassero mentre leggo, se capissero che semplicemente vado in trance, sarebbe tutto più semplice. Comunque io alzavo gli occhi e poi li riabbassavo, e quando li ho riabbassati senza avere risposto a nessuna delle loro domande sui pappagalli asiatici ho letto questa frase: non sarai mai più un prodigio. Mai più. E’ passata da molto tempo l’età dell’enfant prodige, in ogni campo, nonostante i settant’anni siano i nuovi cinquanta e quindi forse i quaranta siano i nuovi diciotto. Ma le cose della vita sono andate avanti lo stesso. Il tempo si frantuma, il sole cammina, noi cambiamo, e in treno il controllore dice alla ragazza seduta accanto a me: signorina. A me, no. Ma non mi ferisce, ho in mente dei versi di Patrizia Cavalli: “E adesso tutti mi chiamano signora / Certo sarebbe peggio signorina”.
Invecchiare è un dramma immaginario, ma l’avvenire, il futuro, è tutto già qui o dovrebbe essere qui: questa è realtà. Pamela Druckerman, diventata famosa per un libro sul metodo francese di crescere i bambini, libro che io ho letto mentre crescevo i bambini, ricavandone soprattutto l’ammirazione per i parigini che cenano al ristorante con figli piccolissimi e silenziosi, scrive nella prefazione a questo saggio sui quarant’anni (che è anche un saggio sul non essere adulti, e le due cose stanno pericolosamente insieme e aumentano la mia insonnia): “Se un tempo dicevamo che ‘un giorno’ avremmo fatto qualcosa – tipo cambiare finalmente lavoro, leggere Dostoevskij o imparare a cucinare i porri – ora sappiamo che è il momento di darci una mossa. Non stiamo più progettando una vita futura immaginaria o collezionando esperienze da elencare sul curriculum. Stiamo già vivendo la nostra vita reale, non ci sono più dubbi: abbiamo raggiunto quella che Immanuel Kant definì la Ding an Sich, la cosa in sé”. La cosa in sé: quindi è Kant che mi tiene sveglia la notte.
Non sono più nella fase preparatoria, non sto più accumulando, sono totalmente dentro la cosa in sé
La sensazione netta di avere raggiunto la cosa in sé, e di non sapere bene che farci. Adesso che sono io, e non mia madre, ad andare ai colloqui con gli insegnanti, io a decidere quali medicine servono, quali articoli scrivere, quali idee difendere, quali altri errori fare. Nessuno potrà mai più dire di me: è ancora presto. Era così rassicurante quel “presto” (rassicurante e fastidioso), così come era rassicurante e fastidiosa, e Pamela Druckerman lo scrive, la presenza di persone adulte nel mondo. Un gruppetto misterioso di adulti, uomini e donne, che aveva le chiavi di tutto: case, letteratura, politica, dentista, vita coniugale, decisioni, guerre, aerosol. Adesso in quel misterioso gruppo devo starci io. Nessuno verrà a salvarmi, a sgridarmi, e nessuno dirà: brava. E’ una liberazione, ma anche un capogiro. E’ lo sguardo di mio figlio che si aspetta da me la soluzione a tutto e una risposta a tutto, ma è anche il mio sguardo su quelli più adulti intorno a me: la distanza si è ridotta, adesso siamo pari, e a volte sento che sono più avanti io.
Se penso: qualcuno però dovrebbe fare qualcosa, qualcuno dovrebbe occuparsi di questo problema, il pensiero successivo è: ma quel qualcuno sono io. Chi deve (dovrebbe) occuparsi di aggiustare Sky? Io. Chi deve (dovrebbe) occuparsi del pranzo di Natale? Io. E chi deve vivere attivamente la mia vita, se non io? Non sono più nella fase preparatoria, non sto più accumulando, mettendo da parte, preparando il colpo. Sono completamente dentro questo colpo. Dentro la cosa in sé.
Attorno alla cosa in sé, che è sostanziale, si muovono altre scoperte più piccole, ma che aiutano a comprendere la portata del cambiamento: ad esempio non tutti i materassi sono uguali.
Sai di avere più di quarant’anni quando, scrive Pamela Druckerman: se esci di casa struccata, la gente continua a chiederti se sei stanca. Hai ricordi da adulta di cose accadute molto tempo fa. A volte ti svegli con i postumi di una sbronza anche se la sera prima non hai bevuto. Ti rendi conto di poter manipolare altre persone e che alcune di loro ti hanno manipolato per molto tempo. Dici parolacce davanti ai figli ma non permetti loro di fare lo stesso davanti a te. Hai già partecipato a un po’ di feste di cinquant’anni. Hai cominciato a immaginare dove vivrai quando i figli se ne saranno andati di casa. Vedi le qualità e i difetti della gente e sai che una persona molto abile in un campo può essere totalmente inetta in un altro. Dici agli amici più giovani che sono giovanissimi. Hai il senso del ridicolo. Non hai più voglia di dormire sul divano di nessuno. Druckerman aggiunge poi una cosa che contesto decisamente, e accetterò solo in nome della libertà di scrivere tutto: scopri di avere la cellulite sulle braccia.
Non hai più voglia di dormire sul divano di nessuno. A volte ti svegli con il post sbronza anche senza aver bevuto. Perdoni tutti
E hai quarant’anni quando ti rendi contro precisamente di ciò che non desideri essere: in questo libro viene ricordata la storia di Carl Jung, che a quarant’anni interrompe i rapporti con Sigmund Freud, che considerava una specie di padre, dopo avergli scritto una lettera: “Mi sono reso conto di essere molto diverso da Voi. Questa consapevolezza comporterà un cambiamento radicale nel mio atteggiamento”, e quasi impazzisce per le conseguenze, ma prosegue nel suo viaggio interiore e professionale. Jung scrive: “Sono stato investito da un’ondata di lava e il fuoco ha riplasmato la mia vita”. Riplasmandosi, ha elaborato la teoria sul diventare adulti, riassume Pamela Druckerman: stabilisce che dalla pubertà fino a circa trentacinque anni siamo dominati dall’ego. L’ego è la parte volubile, che cerca lo status sociale e l’approvazione degli altri. La fase in cui mettiamo su famiglia oppure no, andiamo avanti con le nostre carriere oppure inciampiamo, ci muoviamo nel mondo come possiamo. Poi qualcosa cambia, l’ego retrocede, si comincia invece a osservare una parte nascosta di sé che preme, e di cui prima ci si vergognava, qualcosa che si cercava di nascondere, perfino. Die Schatten, l’ombra: l’aspetto occulto della personalità. Allora trascini l’ombra verso la luce, e costruisci il sé immutabile. Io ho capito che detesto i ristoranti giapponesi, soprattutto quelli con il nastro che gira, e non voglio andarci mai più. A quarant’anni, se hai accumulato abbastanza cose (fallimenti, idee, emozioni, sentimenti, persone, sviamenti), diventi quello che sei.
Non so se sia un’età dell’oro (per mio marito è l’età in cui manca un passo all’abisso, o a una tranquilla vecchiaia), ma so che è il mio momento e mi sembra bello, difficile, così bello e difficile che non ci dormo per il capogiro della responsabilità. Non so nemmeno se questo significhi essere adulti, e forse gli adulti non esistono: Pamela Druckerman scrive che in realtà tutti improvvisano, fanno finta, alcuni solo con più sicurezza di altri. Improvvisano anche i quarantenni che hanno cominciato a parlare dei posti in cui vorrebbero trascorrere gli anni della pensione, improvvisano le mie amiche che dicono di non volersi tingere i capelli bianchi perché li hanno aspettati tanto. Non significa essere diventati grandi. Significa però avere più chiaro il prezzo delle cose, vedere meglio chi è rimasto ferito e chi è stato stronzo (anche loro stavano solo improvvisando), guardare tutto e rendersi conto della complessità. Trovare per caso in fondo a un cassetto le foto di dieci anni fa, quelle che volevamo bruciare perché eravamo venute orrende, e dire: non ero poi così orrenda. Ma preferire comunque oggi, adesso, stanotte, la vita in sé.