Voglia di riservatezza
Il lusso di essere sconnessi. Perché moda e costume lasciano a piccoli passi la strada dell’esibizione di massa
Nelle stesse ore in cui l’ex titolare del dicastero dello Sviluppo economico Carlo Calenda annunciava via Twitter di aver sospeso le uscite pubbliche per stare vicino alla moglie Viola malata e veniva bersagliato da irriferibili insulti dai troll, come purtroppo molti ci attendevamo in questo clima di giustizialismo cieco e ignorante, alla Triennale di Milano, affollatissima per la tre giorni dell’evento “Il tempo delle donne”, Milena Gabanelli raccontava a Maria Luisa Agnese di aver deciso che gli agenti provocatori dei social network non meritano sia lasciato loro spazio, e che ogni giorno rintuzza dunque ogni insulto le venga rivolto sui propri account e ribatte con dati e cifre a ogni tentativo di mistificazione del suo pensiero. Si tratta di un gran lavoro, ammetteva, punto divertente, ma necessario se si vuol stare sui social e usarli anche a proprio vantaggio. Si deve imparare a picchiare duro, cioè ad accettare le regole del gioco, che sono la libertà di parola data a tutti e lo scarso o spesso incerto controllo.
La permanenza sui social è diventata una corvée a cui un numero sempre maggiore di persone ha iniziato a sottrarsi
Quando la stanza dei genitori era inviolabile. Gli open space lavorativi e la drastica diminuzione della “voglia di parlarsi”
Questa spia di tendenza deve essere sembrata allarmante anche all’uomo più ricco del mondo, il fondatore di Amazon Jeff Bezos, che infatti, fra le tante mosse studiate per evitare la perdita di fiducia del mondo nei confronti di web e social, ha organizzato per i propri manager una serie di convegni e di incontri di brainstorming con relatori in apparenza lontani e distonici rispetto al suo business. Uno di questi è Brunello Cucinelli. Ne accennava lo stesso imprenditore a Solomeo, in Umbria, pochi giorni fa, durante la giornata di celebrazione dei quarant’anni della sua azienda e della realizzazione del suo “Progetto per la bellezza”, un borgo e un’intera valle restituita alla comunità sotto forma di nuovi campi arati, vigneti, filari di cipressi al posto di capannoni dismessi e incuria: “Sono stato invitato da Jeff Bezos a parlare di riservatezza”, ha accennato in un passaggio del suo discorso di ringraziamento che, pur improntato sui temi consueti della dignità del lavoro e dell’uomo, introduceva l’elemento al tempo stesso antico e nuovo della discrezione come sinonimo di lusso personale, cioè, in parole povere, della straordinaria ricchezza di farsi i fatti propri senza essere offrire continuamente informazioni sulla propria intimità a perfetti sconosciuti. “Io sento il peso psichico del mio smartphone”, scrive infatti Cucinelli in un passaggio della sua autobiografia, “Il sogno di Solomeo”, appena pubblicato per Feltrinelli. “La sensazione che quel piccolo oggetto sappia tutto di me, che mi ascolti in ogni momento, addirittura quando è spento, mi toglie il conforto di un po’ di solitudine. Immagino quindi che in futuro il vero lusso dello spirito sarà nel condurre una vita segreta a questo nostro, pur fedele, compagno”.
Il lusso di essere sconnessi, cioè riservati, non visibili, non identificabili da quel grande fratello che ci portiamo appresso, rappresenta un passo in più, a lato, rispetto al valore del “tempo per sé” con cui ci hanno, anzi vi abbiamo tutti noi giornalisti di costume, stracciato l’anima fino all’altro ieri. Da quanto tempo non leggete l’intervista al potente ipocrita che si lamenta della mancanza di tempo, “il vero lusso che non posso permettermi?”. Tre anni, minimo, cioè da quando l’attrazione per Instagram e Snapchat si è fatta così irresistibile da includerne perfino la defezione. La diffusione dei social ha reso la mancanza di tempo libero, cioè la presenza di tempo occupato, un elemento divisivo potentissimo. Ormai, chi tempo ne ha troppo e finisce inevitabilmente per trascorrerne una quota significativa sullo smartphone spiando gli altri e le loro esistenze sempre e apparentemente più fascinose della sua, tende a scaricarvi le sue frustrazioni. Chi, invece, tempo ne ha poco perché impegnato a gestire belle famiglie, professioni interessanti e una vita sociale piena, che quasi sempre non resiste alla tentazione di mostrare sugli stessi network, si guarda bene dal lamentarne la mancanza; farlo, significherebbe infatti attirarsi gli odi dei nullafacenti e al tempo stesso perdere i loro like. Una posizione falsa da cui parecchi, infatti, iniziano a sottrarsi, mettendo a tacere vanità e orgoglio per ricercare, oltre alla privacy, anche un po’ di quella concentrazione che guardare ogni monumento nell’ottica di Giovanni Gastel di fatto impedisce.
“Io sento il peso psichico del mio smartphone”, scrive Brunello Cucinelli, invitato da Jeff Bezos a parlare di riservatezza
La scelta naturale per chi non vive di visibilità h24 come le influencer, o che tanto vorrebbe, come le mogli dei calciatori che sono riuscite a lagnarsene perfino in un libro sulla loro “vita sacrificata”, sarebbe dunque la riservatezza, comportamento di sapore e di valore antico al punto che Roberto Maroni, dopo aver consigliato al ministro dell’Interno Matteo Salvini di farne uso sul tema dei migranti lo scorso giugno, è sostanzialmente sparito dalla scena politica. “Il suo rango richiede una riservatezza che altri ruoli non richiedono”, disse del suo successore, avendone occupato la stessa poltrona al Viminale per due governi, in anni berlusconiani. Di Maroni non sentiamo parlare da allora mentre, una settimana fa, Salvini ha aperto la lettera della procura di Palermo che lo indagava per il caso della Diciotti in una diretta facebook che, pur evidentemente pilotata, gli ha permesso di creare un nuovo, grande caso di comunicazione politica. Insomma, direte voi, quale riservatezza e quale doveroso tempo per la solitudine evocato da Cucinelli quando l’impressione è che la vittoria arrida a chi mette tutto, subito, in piazza, fosse pure in forma di storytelling e richiudendo le buste di lettere già molto lette con lo scotch.
Roberto Maroni, sparito di scena dopo aver consigliato una maggiore discrezione al ministro Salvini. E la moda di massa che segna il passo
Tenere il basso profilo, non mostrare tutto di sé a chiunque, è diventata una posizione talmente eccentrica da essere stata però adottata come nuova tendenza dal mondo della moda che fino a ieri, sulla spinta del drastico calo delle vendite di abbigliamento degli ultimi dieci anni, puntava all’inclusione e a una serie di eventi trasversali per mostrare il proprio lato pop e democratico. Che, però, si sta rivelando fallimentare o troppo difficile e dispendioso da sostenere, soprattutto a causa della nuova coscienza etica dei consumatori: si inizia a sentirsi in colpa di indossare capi cuciti per pochi soldi dai nuovi schiavi del Bangladesh, e acquistare capi “tanto divertenti” che inquinano si è fatto meno divertente di cinque anni fa. Da quando il fast fashion, cioè la moda di massa e di consumo continuo, ha iniziato a segnare il passo allo stesso ritmo dei social (H&M ha perso il 21 per cento degli utili nel secondo trimestre di quest’anno), il prêt-à-porter di alta gamma che aveva iniziato a seguirne gli usi e lo stile di comunicazione si è sentito libero di tirare di nuovo il freno a mano e, come il ceo di Gucci Marco Bizzarri aveva ampiamente previsto tre anni fa, di mettere la parola fine alla corsa al continuo rinnovamento degli stock e ai saldi una volta al mese. Finita la fretta, finita la svalutazione immediata degli acquisti. Zara sta virando su capi di discretissima qualità e stile originale. Ovs è andata a prendersi uno stilista supercilioso, raffinato ed elitario come Massimo Piombo, moltiplicando le sue capsule collection a tiratura limitata e invitando pochi intimi a cene placé con concerto privato di grandi nomi della musica. A organizzare i grandi eventi di piazza è rimasto solo Intimissimi. Per le sfilate che si inaugureranno a giorni, l’unico after party previsto è quello di Philipp Plein. Tolta la scelta politica di Giorgio Armani di far sfilare la linea Emporio nell’hangar dell’aeroporto di Linate sotto l’insegna dell’aquilotto che chiunque decolli o atterra vede da quasi trentacinque anni e che ormai considera un landmark milanese, la scelta più frequentata è addirittura quella di sfilare o di organizzare presentazioni e cene in case private. Anche se tutti dovessero postare i selfie d’occasione, allo sguardo degli osservatori non passerebbe l’idea di uno stadio affollato ma di un incontro riservato, curato, dove la gente si è parlata invece di intontirsi di musica e shottini.
Tutto questo è piuttosto lontano dal concetto pur moderno di riservatezza che evoca Cucinelli, ma non ci sono dubbi che la strada dell’esibizione di massa a uso ignoto sia stata imboccata al contrario, pur a piccoli passi e attraverso segnali quasi impercettibili. Dopotutto, alla riservatezza non siamo più abituati, neppure nella dimensione che ci è più vicina, quella familiare. Se per la nostra generazione (diciamo la mia e ascendenti) le stanze dei nostri genitori erano sacre e inviolabili, mai che ci venisse in mente di bussare a meno che non fossimo colti da coliche irrefrenabili o accessi di tosse, per quelle attuali il lettone è una naturale prosecuzione del lettino a cui accedere in ogni momento attraverso una porta sempre aperta. Quindi, tutti insieme in classe, e qui ci mancherebbe. Sugli open space lavorativi, solo oggi ci si sta accorgendo dei danni che provocano alla concentrazione e al rendimento, come se tutti noi che abbiamo soggiornato per anni in immensi stanzoni brulicanti di gente, di voci e di squilli del telefono (nel mio caso, con l’aggiunta non trascurabile della stampante a fianco), non ce ne fossimo già accorti, finendo poi per accettare l’offerta di lavoro di una certa casa editrice proprio perché ci garantiva un ufficio singolo e un po’ di pace. Gli open space tendono anche ad annullare i rapporti interpersonali diretti. Una delle scoperte più singolari fatte dai ricercatori di Harvard che hanno studiato le dinamiche sociali degli open space, è stata la drastica diminuzione dei rapporti diretti fra chi li occupa, della “voglia di parlarsi”, come se il costante inquinamento acustico imponesse al cervello di ciascuno di autoregolarsi e di difendersi tacendo appena possibile, cercando di preservare quello che Montaigne chiamava “il retrobottega”, ricco di disordine, di idee in nuce, di traslucenze da coltivare e rifinire nella quiete del proprio palazzo della memoria. Un culto dell’io segreto contro l’io pubblico e inevitabilmente superficiale.