Viva Kate Moss, l'antisociale che se ne frega di essere esemplare
Un documentario sulla modella che pensionò le top model
Roma. Poco prima di posare per Chuck Close, Kate Moss gli disse: “Accidenti, allora avrei dovuto farmi la ceretta!”. E poi rise. Significava: fai pure, cosa vuoi che cambi? Lui le aveva spiegato che, sui dagherrotipi, si vede sempre tutto: ogni poro, ogni puntino nero, ogni pelo, qualsiasi imperfezione. Non le importava, a lei non è mai importato di niente, d’essere nuda o vestita, bella o brutta, ubriaca o lucida: non ha mai fatto la differenza (però beveva solo vodka – bottiglie intere – perché il dottore le aveva detto che era il solo alcolico incapace di rovinarle la pelle).
Una sua foto di oggi ha, d’uguale a una qualsiasi degli anni Novanta, quando lei arrivò a cambiare tutto (ha scritto Annalena Benini che fu come quando spuntò fuori Brigitte Bardot: tutte le altre invecchiarono di colpo), la stessa disinvoltura, la stessa radicalità, la stessa sfida: i tratti che l’hanno vestita e avvolta sempre, anche quando addosso non aveva niente, neppure l’intenzione del fotografo, dello stilista, del mondo che ne fece un’icona senza che lei ci s’impegnasse o lo volesse, come è successo per tutte le icone.
Venerdì sera (21 settembre ndr) su Sky Arte andrà in onda un documentario di Nicola Graef su di lei. Si chiama “Kate Moss – Nascita di un’icona” e fa qualcosa di meglio (grazie al cielo) di quello che ha scritto chi lo promuove, ovvero “ripercorrere le tappe della carriera della top model fin dagli anni Ottanta cercando di capire come sia diventata fonte di ispirazione per generazioni di donne, artisti, stilisti”. Uno legge “ripercorre” e s’aspetta una docu-fiction su Moss che arriva a New York dalla periferia inglese, negli anni Novanta che stavano ribaltando la moda sfregiandone la ieraticità e, per questa decostruzione, erano in cerca di un viso, un poster; lei che diventa quel poster e prende a bere, a fumare, a far figli troppo giovane, a finire in clinica per disintossicarsi (da vodka e Johnny Depp); lei che si purifica, si riprende, diventa la madre che è ora e che dice (l’ha fatto pochi giorni fa) che non permetterà a sua figlia di posare in topless. Se così fosse stato, avrebbe avuto senso guardare questo documentario levando l’audio e godendosi solo le immagini (magari mettendo su un disco dei Blur, magari Leisure, oppure Blur, ma non 13).
Invece, della storia di Kate Moss, della sua carriera, di quello che le è capitato o che lei ha fatto capitare (moltissime cose, in larga parte senza volerlo), il regista s’è curato poco, l’ha abbozzato con grande maestria per avere una cornice solida che tenesse dentro lei e si focalizzasse su un punto molto complicato da spiegare e da rendere: la circolarità di Kate Moss. La sua storia che non è una storia, ma un giro intorno a un centro immutabile (lei) che però è una fonte di innovazione. Una cosa su cui convergono le testimonianze e i ragionamenti di tutti gli intervistati è questa: Kate Moss è “bella e transitoria”, cioè bella senza nessuna possibilità di diventare un canone, di avere un erede. La moda dovrebbe essere questo (e le modelle dovrebbero essere “la santificazione del desiderio di comprare”).
Dice Vivienne Westwood a un certo punto che oggi i modelli da imitare sono sempre meno importanti perché ogni individuo è sempre meno importante. Kate Moss s’è rifiutata, anche quando il solo posto in cui sarebbe stato impossibile trovare una sua foto erano i conventi (e forse neanche quelli), di diventare esemplare. E’ per questo che, nella storia della moda, nell’iconologia, la sua non sarà mai una parabola ma sempre e solo un tondo, un pianeta intorno al quale girare senza poterlo attraversare. Ha servito la bellezza, negli anni in cui avevamo più onestà nell’ammettere che la bellezza danneggia soprattutto chi ce l’ha, ma non s’è fatta usare per nessuna causa. Ha avuto carattere per non farsi usare da nessun benintenzionato (brutta gente, i benintenzionati). Ha fumato e bevuto e fatto la ragazza madre davanti a tutto il mondo, mentre le consigliavano di smetterla. La moda, adesso, fa l’opposto: si sforza di creare modelli e, così, produce soprattutto automi, disposti a riprodurre i dettami dell’accettabilità sociale. Kate Moss, invece, è stata antisociale.
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