John Hockenberry (foto via Wikimedia)

“Anche le fisioterapiste mi evitano”. Hockenberry, paria da #metoo

Giulio Meotti

Il racconto-choc del giornalista della radio pubblica americana, la cui “colpa” fu di mandare email un po’ spinte a una collega, parla di “caccia aperta” e della “licenza a bersagliarmi”

Roma. “Un magazzino a Brooklyn contiene i frammenti della vita che non vivo più”. In un articolo dal titolo Exile pubblicato su Harper, John Hockenberry, noto giornalista della radio pubblica americana la cui “colpa” fu di mandare email un po’ spinte a una collega, racconta un nuovo tipo di “esilio”, fatto di sguardi meschini, telefonate a vuoto, incontri mancati. “I miei Emmy, le foto incorniciate dei viaggi, la dichiarazione del presidente Obama, sono macabramente visibili attraverso l’involucro di plastica e il nastro adesivo. Ho affrontato la rabbia implacabile di colleghi, il loro silenzio di pietra e, a mio avviso, codardo”. Il saggio è uscito nelle stesse ore in cui Ian Buruma veniva liquidato in qualità di direttore della New York Review of Books, reo di aver pubblicato un articolo “sbagliato” su #metoo.

 

“Per quasi un anno ho vissuto da paria affrontando un silenzio glaciale o una aperta ostilità” rivela John Hockenberry. “Ho visto svanire presunti amici. Ho ascoltato colleghi, avvocati e professionisti di pubbliche relazioni dirmi che non sono assumibile. ‘Non sei più una persona, sei un archetipo’, mi ha detto un amico. ‘Sei coinvolto nella correzione di questa rivoluzione’, mi ha detto un’amica. Nell’ultimo anno ho trovato impossibile fare incontri di lavoro. Anche le proposte di lavoro sotto falso nome o anonimato sono state rifiutate. Per un certo periodo, l’unica occupazione che ho potuto contemplare era in una email in cui si cercavano persone disabili per i negozi Walmart nello Utah e in Georgia”. Hockenberry scrive di essere passato da essere “qualcuno riconosciuto per le strade di New York come giornalista, autore e difensore dei disabili” a un uomo terrorizzato dall’apparire in pubblico (Hockenberry è in una sedia a rotelle, come un altro crocifisso da #metoo, il venerato musicista James Levine). “Le fisioterapiste che frequentavo da anni hanno deciso che non potevano più curare le mie artriti dopo aver letto i rapporti su di me”.

 

Hockenberry parla di “caccia aperta” e della “licenza a bersagliarmi, a fare di me un esempio, il simbolo della cultura radiofonica tollerante delle molestie. Ha funzionato. Rileggo ‘Lolita’ e sono sicuro che Vladimir Nabokov verrebbe arrestato se quel romanzo fosse pubblicato oggi. Ero preoccupato persino che essere visto con quel libro in pubblico avrebbe confermato i miei reati. L’ho portato in metro e l’impressione che tutti mi stessero fissando era così palpabile che sono sceso alla fermata successiva e sono andato a casa in autobus”. Ma non c’è soltanto Vladimir Nabokov nel racconto di John Hockenberry pubblicato questa settimana da Harper. “Cosa farebbe il movimento #metoo al narcisista Chopin e al suo rapporto distruttivo con George Sand? In che modo l’indisciplinato Schubert, distrutto dalla sifilide, risponderebbe all’accusa di molestie sessuali? L’intermezzo in B minore di Brahms è stato il mio compagno. Se non fossi stato accusato di essere un molestatore sessuale dubito che avrei mai frugato nella vita emotiva di Brahms. Non avrei saputo che solo le prostitute soddisfacevano la fame della sua libido. Il famoso misogino Brahms sicuramente avrebbe liquidato il linguaggio di liberazione delle donne sul posto di lavoro senza mezzi termini come simile ai mullah Talebani. Nel 2018 lo splendore dei romantici sembra all’improvviso come una droga musicale del Diciannovesimo secolo per far svenire e sottomettere le donne”.

     

Lenin diceva che così come per fare una frittata si devono rompere delle uova, per fare una rivoluzione è necessario qualche sacrificio. La distruzione di Hockenberry e di tante altre personalità diventate radioattive ha costituito, nella follia del #metoo, soltanto un uovo rotto per raggiungere la grande uguaglianza di genere. Le tricoteuses, che battevano i piedi dalla gioia mentre rotolavano le teste dei condannati alla ghigliottina, sembrano essere tornate.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.