Follie per la carta
Salvare il mondo partendo dalle rotative. E non c’è solo Marc Benioff con Time. Tutti gli imprenditori digitali colpiti dal morbo del giornale
Per diventare milionari, niente di meglio che essere miliardari e poi comprarsi una squadra di calcio, oppure un giornale”. L’antico e poco edificante detto americano definisce una relazione complicata, quella tra capitale e carta stampata; eppure, negli ultimi tempi, si assiste a un grande revival di giornali cartacei che a fronte della crisi dilagante vengono rilevati dai meglio nomi del digitale. L’ultimo è stato Marc Benioff, fondamentale imprenditore siliconvallico che ha annunciato la settimana scorsa di aver comprato il glorioso Time Magazine. Forse perché impressionato dalla faccia di Salvini in copertina, ha pagato 190 milioni di tasca sua (e della moglie) per comprare il settimanale e rilanciarlo.
I siliconvallici applicano le loro ricette anti sprechi, razionalizzano e digitalizzano. “Questa è una startup”, ha detto Benioff al Nyt
“Un mix di altruismo, potere e ego”. E poi “un grosso fattore è che i giornali costano poco e sono un business molto divertente”
Quella di Benioff non è che l’ultima operazione di capitalisti digitali che comprano giornali: prima di tutti c’era stato Mike Bloomberg, il sindaco di New York e miliardario delle informazioni borsistiche che aveva comprato il pericolante Businessweek nel 2009 per 5 milioni di dollari. Poi Jeff Bezos che nel 2013 aveva rilevato il Washingon Post per 250 milioni. Poi due anni fa la vedova di Steve Jobs che si era regalata l’Atlantic, il più antico mensile americano. Infine quest’estate un ricco medico che ha fatto fortuna con startup sanitarie ha acquistato il Los Angeles Times.
I personaggi sono molto diversi tra loro, e le motivazioni pure. Da una parte ci sono gli integrati, quelli come Bloomberg che già operano nel settore e che si espandono comprando un brand glorioso e vetusto ma complementare. Più nutrita la squadra degli aristocratici: quelli che acquistando un giornale, salvandolo dal baratro cui il digitale l’ha destinato, compiono una buona azione. Qui, pare equiparata tra taluni miliardari l’idea di estirpare la malaria con quella di salvare il cartaceo: nella prima categoria ci sono Bill Gates e Mark Zuckerberg. Il primo, ormai considerato un padre della patria, un arzillo nonnetto della beneficenza, con la Gates Foundation e con la promessa di donare tutto il donabile in beneficenza ispira anche Zuckerberg che per salvarsi l’anima finanzia la lotta a malattie e piaghe.
C’è invece chi salva il mondo partendo dalle rotative. E’ interessante che questi benefattori comprano sempre coi soldi loro, mai con quelli dell’azienda, un po’ perché gli azionisti americani sono meno propensi ad avallare capricci padronali, un po’ perché probabilmente hanno poche speranze che oltre ad essere una buona azione possano portare mai un dollaro di introiti. Però non è detto. Qualcuno riesce a farceli, i soldi. Di sicuro i siliconvallici applicano le loro ricette anti sprechi, razionalizzano e digitalizzano. “Questa è una startup”, ha detto Benioff al New York Times, aristocratico-integrato. “Ha avuto un sacco di opportunità che sono andate perse, ma noi siamo qui per rilanciarle”. La startup è appunto Time Magazine, gloriosa pubblicazione che dal 1923 è Primo settimanale d’America, e autobiografia notiziaria del paese. Fondato da due nomi mitici come Britton Haden e Henry Luce, ha dominato con le sue copertine il Ventesimo secolo. Essere “uomo dell’anno” e poi “persona dell’anno” era il massimo onore pubblicistico. E’ ancora la rivista più venduta, con ventisei milioni di copie, anche se negli anni ha perso tiratura e pagine pubblicitarie – nel 2013 ha tagliato 500 posti di lavoro. E’ passata di fusione in fusione: nel 1990 con la Warner, che poi la fa entrare nel calderone di uno dei più maldestri tentativi di fusione di “analogico” e “digitale”, fondendo cioè uno dei primi gestori Internet americani con la famigerata operazione Aol-Time Warner degli anni Duemila. “La fusione tra la Time Warner e Aol dovrebbe passare alla storia come la guerra del Vietnam o quelle di Iraq e Afghanistan”, sostenne Ted Turner. “E’ stato uno dei disastri più grossi che il nostro paese abbia mai dovuto affrontare”. Time fu poi ceduto, e poi nel 2017 come estremo oltraggio ceduto ai fratelli Koch, gli efferati capitalisti inquinatori e antiobamiani, e infine nei giorni scorsi al magnate di San Francisco, per 190 milioni.
“Ci metteremo tutte le risorse che servono”, ha detto Benioff, uno dei siliconvallici meno conosciuti all’estero, e però dei più carismatici. Dal nulla ha costruito un grande gruppo di cloud computing e di gestione delle vendite (per dire, qualunque cosa compriate online o offline, è probabile che usiate un software Salesforce, da Amazon ad American Express, ad Alitalia a Boggi in Italia) e per suggellare il suo impero ha costruito il grattacielo più alto di San Francisco, il Salesforce Tower che con la sua punta candida illumina la città a 326 metri di altezza, non lontano dal grattacielo Hearst che qui nei primi del Novecento aveva illustrato le fortune di un altro grande magnate della stampa.
Ma il caso forse più clamoroso era stato quello di Jeff Bezos, che nel 2013 aveva rilevato il più araldico quotidiano liberal americano, il Post. In un recente dibattito all’Economic Club di Washington, il palestrato fondatore di Amazon ha spiegato la sua versione della storia. Intanto, ha rivelato, è stato approcciato lui dai Graham, la leggendaria stirpe di editori democratici, e non viceversa. Approcciato in particolare da Donald, figlio di Katharine, recente protagonista del film di Spielberg. “Ma non so nulla di giornali”, pare sia stata l’opposizione alla profferta. “Ma sai tutto di Internet”. Bezos stesso ha spiegato come si sia lasciato convincere; “se fosse stata un’azienda che fa merendine non l’avrei presa di certo, perché il suo modello di business era fallimentare”; ha detto. “Ma era il più importante quotidiano della capitale del più importante paese del mondo”. E poi però, riflettendo, “è vero che Internet ha distrutto molti dei vantaggi dei giornali; e però gli ha dato un dono: una libera distribuzione globale”. Così, da lì in poi, Bezos si è concentrato sul fondere il vecchio modello dei giornali con quello su cui è basata Amazon. Dal guadagnare di più per ogni singolo lettore, al generare più lettori possibili. In parole povere, fare massa, il caposaldo su cui è stata fondata la sua azienda, che ha notoriamente una redditività bassissima per utente ma appunto volumi mostruosi. Adesso il Post pare che vada bene, dopo un’infornata di addetti al marketing online, ai dati, all’analisi dei dati, e perfino qualche giornalista. Ha raddoppiato gli abbonamenti digitali, anche se i dipendenti quest’estate hanno scritto una lettera aperta ringraziando Bezos per aver salvato il loro giornale ma chiedendo rassicurazioni su tagli e licenziamenti.
Il caso forse più clamoroso è stato quello di Jeff Bezos, che nel 2013 ha acquistato il più araldico quotidiano liberal americano, il Post
La signora Jobs ci ha preso gusto: dopo aver rilevato la quota di maggioranza dell’Atlantic ha finanziato Axios e Gimlet Media
Se il Wp si sta dimostrando un buon affare, nella categoria charity va forse collocato il salvataggio dell’Atlantic da parte di Laurene Powell Jobs, vedova di Steve. Nel 2017 rileva il magazine tramite la sua associazione filantropica Emerson Collective, ispirata a Ralph Waldo Emerson, il filosofo ottocentesco che teorizzava la giovane America dei talenti democratici. Lei tramite la fondazione stava per lanciare anche un magazine chiamato Ideas, affidato al giornalista e intellettuale organico Leon Wieseltier (ma Wieselter finisce nella temperie delle molestie presunte e non se ne fa più niente). La signora Jobs ci ha comunque preso gusto – come succede quasi sempre – con l’editoria: dopo aver rilevato la quota di maggioranza dell’Atlantic ha poi finanziato Axios, uno dei più interessanti magazine online, e Gimlet Media, leader nella produzione di podcast. Nel 2011, quando il marito muore, lei diventa la terza donna più ricca d’America, dietro Alice Walton dei supermarket Wal Mart e Jacqueline Mars delle omonime barrette, con 20 miliardi di dollari. Invece che farsi delle chirurgie invasive o trovarsi degli interior decorator che la portino ai balli, si ingaggia nella beneficenza selettiva come usa da queste parti e come faceva già prima della vedovanza. Ha fondato varie organizzazioni: College Track, che aiuta ragazzi disagiati a non abbandonare (come il marito) la scuola. La compagnia di alimenti organic Terravera; un complicato XQ-SuperSchool che teorizza un nuovo tipo di liceo (in Silicon Valley c’è questa ossessione per le scuole, è tutto un fondare nuovi licei, progettare nuove elementari, reinventare l’asilo). E poi i giornali, appunto.
Che danno dipendenza. Un altro californiano che viene da tutt’altra esperienza ma che è un grande appassionato di carta stampata è Patrick Soon-Shiong, un miliardario del settore sanitario che dopo aver rilevato la squadra di basket dei Lakers a giugno ha comprato il glorioso Los Angeles Times pagandolo 500 milioni di dollari. “Le fake news sono il cancro della nostra epoca”, ha detto quello che è considerato “il dottore più ricco di tutti i tempi”, secondo Forbes (8,6 miliardi di patrimonio). Nato in Sudafrica da genitori cinesi, ha fatto fortuna in America con un farmaco anticancro, l’Abraxane, e poi con startup digitali nel biotech. “A causa degli smartphone è sparito il concetto di lettura di lusso”, ha detto il dottore plutocrate, che è stato ospite del forum Ambrosetti nei giorni scorsi. Non ha precisato cosa intenda per “lettura di lusso”, ma pare intuibile trattarsi di articoli superiori alle cinque righe, con un moderato tasso di cliché, e senza gattini. “Abbiamo una generazione col cervello ormai modificato, abituato a leggere articoli corti e con una soglia di attenzione bassissima”, ha detto. “Il giornalismo di oggi sta portando a un peggioramento dei disordini dell’attenzione, specialmente tra i giovani. E’ un fenomeno che dà dipendenza, e che rende impossibile separare i tweet, le notizie vere da quelle false”. La “cura” del dottor Soon-Shiong prevede anche di spostare la redazione del quotidiano – che ha 400 giornalisti, contro i 1.300 di qualche anno fa – dalla storica sede a un nuovo ufficio posto a Silicon Beach, il quartiere di Los Angeles dove stanno tutte le startup scese a valle da San Francisco. Il dottore ha tuittato tutta estate entusiasta foto degli operai che issavano le nuove insegne del quotidiano. Poi ha assunto un veterano del giornalismo, Norman Pearlstine, già in passato a Bloomberg, a Time e al Wall Street Journal, come direttore. “Abbiamo cominciato coi geroglifici, non penso che la storia della carta stampata sia ancora finita”, ha detto fiducioso Soon-Shiong. “E poi ci sono tutti questi hipster che comprano il vinile; tra poco si metteranno a comprare anche i giornali cartacei”.
Ma non c’è solo l’America: in Francia fece scalpore nel 2010 Xavier Niel, allora considerato un pirata dell’economia digitale, quando, insieme al banchiere d’affari Matthieu Pigasse e al fidanzato di Yves Saint Laurent, Pierre Bergé, salvò il quotidiano Le Monde. L’anno scorso Niel e Pigasse hanno rilevato anche la quota di quest’ultimo, mancato da poco. Niel, che ha fatto fortuna con la telefonia e internet – suo l’operatore Free – ha poi investito anche in una delle più importanti testate online francesi, Mediapart. Sempre in Francia, anche un altro imprenditore delle tlc come Patrick Drahi ha comprato negli anni Libération e L’Express.
Perché lo fanno? Perché sono graziosi oggettini del passato – come le macchine d’epoca che sono una passione dei siliconvallici, o appunto come il vinile? Perché costano poco e fanno fare un figurone? Per farci dei soldi? Comprare giornali oggi dipende da “un mix di altruismo, potere e ego”, ha scritto Kara Swisher sul New York Times. Ed è un bel paradosso che i più interessati ai giornali siano proprio gli imprenditori del digitale, quelli che praticamente li hanno uccisi.
Forse è una nemesi: come Netflix che dopo aver sterminato i cinema adesso ritorna in sala, vincendo i festival dedicati alle pellicole, con grosso sdegno dell’ortodossia, e addirittura tornando a proiettare nei teatri. O Amazon, che dopo aver polverizzato i negozi, adesso si fa le sue botteghe (ma senza cassieri). A proposito, nel cda di Netflix è entrato nei giorni scorsi Mathias Dopfner, amministratore delegato di Axel Springer, primo gruppo editoriale tedesco, che stampa la Bild e Die Welt. Segno che l’attrazione tra i due mondi continua.
C’è anche l’idea molto nerd di “smontare” un meccanismo, e rimontarlo, eliminandone fili e meccanismi vetusti, facendolo rifunzionare – un topos molto siliconvallico. “Un grosso fattore è che i giornali costano poco e sono un business molto divertente”, ha detto Joshua Benton, direttore del Nieman Journalism Lab di Harvard, uno dei centri studi più importanti d’America. “E’ bello essere qualcuno che possiede un’istituzione culturale”. “E’ come finanziare un museo: alcuni hanno un sincero apprezzamento, altri lo sentono come un dovere civico. Altri ancora certamente lo vedono come un facilitatore sociale”. Ci sono anche casi in cui l’innesto non funziona: nel 2012 il cofondatore di Facebook Chris Hughes comprò The New Republic, per rivenderlo quattro anni e venti milioni di dollari di investimento dopo. Disse di aver “sottovalutato la difficoltà di passare da una istituzione tradizionale a una digital media company”. Lui però aveva forse sopravvalutato soprattutto se stesso: oltre all’azionista, aveva deciso di fare anche il direttore.
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