Papa Francesco in udienza con Nadia Murad (foto LaPresse)

Elogio di un altro #metoo

Paola Peduzzi

Che emozione il Nobel per la Pace contro le violenze sessuali usate come armi nelle guerre. Lui è il medico congolese che ripara le donne, lei è la sopravvissuta yazida, stuprata dall’Isis, che vuole salvarle tutte. Oltre la denuncia, c’è il prendersi cura

Milano. Il Nobel per la Pace assegnato ieri a Oslo recupera il significato primo e puro di questo premio: è un premio contro i crimini di guerra. In particolare un crimine: la violenza sessuale come arma di guerra. Il ginecologo congolese Denis Mukwege e Nadia Murad, la venticinquenne stuprata dagli uomini dello Stato islamico in Iraq e che oggi si definisce “una sopravvissuta del genocidio e del traffico di corpi umani”, sono stati premiati per “i loro sforzi per porre fine all’utilizzo della violenza sessuale come un’arma nelle guerre e nei conflitti armati”.

 

Mukwege, 63 anni, da decenni si occupa delle violenze e degli abusi nella Repubblica Democratica del Congo, che fu definita “la capitale mondiale degli stupri”: guida un ospedale a Bukavu, nell’est del paese, è sopravvissuto a un rapimento e ha continuato il suo lavoro, come ricorda la giornalista belga Colette Braeckman nel libro “L’uomo che ripara le donne”. La Murad ha raccontato la sua storia in un libro che toglie il respiro a ogni pagina: i maschi della sua famiglia sono stati fucilati dallo Stato islamico vicino a Mosul, nella terra yazida che per prima sperimentò la furia del gruppo di Al Baghdadi e che riuscì, nella sua miseria spaventosa, ad attirare l’attenzione internazionale e a determinare l’intervento delle forze americane contro lo Stato islamico. La Murad fu presa, stuprata ripetutamente – “poi non ci fu nient’altro che stupro”, scrive – tentò di scappare e fu ricatturata, ristuprata, ogni giorno, da più uomini, a volte tutti insieme. Poi riuscì a scappare, una famiglia irachena l’accolse e la salvò: più tardi avrebbe scoperto che una sua parente era stata catturata, era scappata sei volte e per sei volte era stata riportata indietro dai cittadini di Mosul, consapevoli di quel che stava accadendo alle schiave yazide, ma terrorizzati dallo Stato islamico. “Non ho mai visto misericordia”, ha detto la Murad, ho sentito tantissime storie e nessuna è mai stata una storia di misericordia.

  

  

Le schiave dello Stato islamico, quelle sopravvissute, hanno raccontato le loro esperienze, capitolo infame della violenza brutale con cui il gruppo ha preso possesso delle terre dei siriani e degli iracheni, delle loro vite e dei loro corpi. La violenza sessuale è un’arma in tutte le guerre, come testimonia Mukwege con il suo ospedale nel cuore del conflitto dimenticato del Congo. Ieri è stato pubblicato un rapporto dell’All Survivors Project che si intitola “Destroyed from within”: racconta quel che è accaduto e accade in Siria, nelle prigioni del regime, le violenze sessuali sulle donne, sulle ragazze, sugli uomini e sui ragazzi, con un’analisi dell’impatto di queste violenze, sui singoli, sulla società, su quei ragazzi e quelle ragazze che magari poi riescono a scappare, e diventano minori in fuga, rifugiati nella nostra Europa.

     

Se nessuna donna deve essere lasciata sola, in particolare queste donne non possono essere lasciate sole né possono essere ignorate assieme alle guerre di cui sono vittime. Si tende all’indifferenza, sono guerre complicate o quasi esotiche, ma una prova dell’importanza e della verità del movimento #metoo potrebbe in realtà proprio stare nella capacità di offrire solidarietà e aiuto a queste donne, le schiave dello Stato islamico e tutte le altre che non possono denunciare quel che hanno subìto. La potenza di questo premio Nobel sta nell’aver scelto non soltanto due personaggi che hanno patito le conseguenze della loro battaglia, ma anche di aver voluto dare un senso di protezione, un senso di cura. Il dottore che ripara le donne, che le rimette in sesto, le fa tornare a camminare, a vivere, persino a sorridere. La sopravvissuta che non avrà pace finché tutte potranno dire: sono salva, non sono sola.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi