“MeToo è l'ultima grande utopia progressista. Siamo al 1793 femminista”
Il “porco espiatorio” di Eugénie Bastié
Roma. Sta arrivando sempre più in alto, ha raggiunto le commissioni del Senato e gli scranni della Corte suprema degli Stati Uniti, travolgendo nel suo percorso romanzi, gallerie d’arte, redazioni dei giornali, sale cinematografiche, studi televisivi, il comitato che assegna il Nobel per la letteratura, il Cern. In una settimana, infatti, il #metoo ha fatto rotolare la testa di Ian Buruma da direttore della New York Review of Books, reo di una pubblicazione “sbagliata” sui presunti abusi sessuali, e del professor Alessandro Strumia, il fisico che ha detto che gli “uomini sono più bravi ma discriminati dall’ideologia della parità” e che adesso è travolto dalle accuse di sessismo e misoginia (Strumia sarebbe stato sospeso). E guai se Roman Polanski provasse a girare un film sul capitano Dreyfus, questo #metoo antisemita ante litteram.
D’altronde per Eugénie Bastié, giornalista del Figaro, siamo in pieno “nuovo 1793” del femminismo, al terrore dopo la rivoluzione, anche se le ghigliottine adesso sono metaforiche. E’ il #metoo come “ultima utopia progressista”, spiega Bastié nel suo nuovo libro, Le porc émissaire, appena uscito per le edizioni francesi Du Cerf. Il porco espiatorio.
La gauche la sta impiccando a una frase proferita da Bastié ai microfoni di France Inter: “Credo che una mano sui glutei non abbia mai ucciso nessuno, contrariamente alle buone intenzioni che spianano l’inferno delle utopie”. Bastié ha provocato forti reazioni anche nel governo, con la condanna di Marlene Schiappa, ministro dell’Uguaglianza e neofemminista. “La grande ideologia del tempo, il femminismo, era in carenza di carnefici”, scrive Bastié nel suo nuovo libro. Da qui il backlash di #metoo dell’ultimo anno. “A Colonia nel 2016 il femminismo era rimasto cieco sugli stupri commessi dai migranti sulle donne tedesche. A Washington non era riuscito a eleggere la sua musa, Hillary Clinton, lasciando che un misogino come Donald Trump entrasse alla Casa Bianca”. Così il femminismo ha ricostruito l’immagine di un occidente come “inferno per le donne”.
“Il sesso, la violenza, la religione, l’infrastruttura primitiva delle nostre società avanzate, tutte sono state mobilitate al servizio di una gigantesca psicoanalisi collettiva”. Una rivoluzione interamente digitale, dove “il fuoco della rivolta è diffuso con gli hashtag”. Un liberalismo vendicativo sta finendo per produrre la sua nemesi, “un politicamente corretto liberticida”. Secondo Pascal Bruckner, il #metoo “fa venire in mente le pratiche in uso durante la rivoluzione culturale cinese, quando chi s’insubordinava veniva messo alla berlina. Ogni settimana richiede una dose di colpevoli da esibire di fronte al muro della vergogna. Ogni accusa equivale a una condanna”.
La fine del comunismo e della socialdemocrazia avevano lasciato un grande vuoto ideologico a sinistra, scrive Bastié, portando “il femminismo a prendere il sopravvento sulle fiamme della protesta radicale contro l’ordine stabilito”. Dietro la maschera dei rapporti consenzienti si annidava, subdolo, il ghigno minaccioso della dominazione maschile. Pensavamo di essere liberi, ma ci illudevamo, in realtà eravamo ancora ostaggi nella trappola di una tirannia occulta. Così “la pratica dell“amalgama’, costantemente rimproverata a coloro che evocano la radicalizzazione o il terrorismo islamista, è qui usata senza complessi”.
Il maschio bianco eterosessuale tutto è il colpevole. E’ una sorta di comunismo light, ci sono le purghe, c’è un clima di sospetti, ci sono i nemici del popolo, ci sono metaforici kolkchoz dove annientare i profittatori di turno, ci sono perfino i suicidi per sfuggire alle delazioni e ai tribunali dell’opinione pubblica. Perché in questo delirio delle società occidentali decadenti che è il #metoo, conclude Bastié, “il campo della violenza sessuale è l’unico in cui l’utopia demiurgica persista nel plasmare un uomo nuovo”.
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