Indagine su Traini, “il peggiore di tutti”, alla ricerca dell'umanità perduta
“L’uomo bianco”, il libro di Ezio Mauro sugli spacciatori di paura
Ezio Mauro ha scritto un libro doppio. Ha stretto lo sguardo su Luca Traini, una persona così vistosamente e disgustosamente “fuori” da suscitare piuttosto un’impazienza che una curiosità. E ha allargato lo sguardo su un cambiamento dell’umanità contemporanea, una mutazione, parola biologica, che rinvia ai tempi lentissimi della storia naturale piuttosto che a quelli svelti e arricciati della storia umana. Già così ponendo un problema. Uno come Traini, l’enormità della sua insignificanza, merita l’attenzione scrupolosa del cronista che così accetta un arduo esercizio di immedesimazione? Qualunque essere umano la merita, direte: sì, ma è poco più di una frasetta di cortesia.
Luca Traini ha fatto di tutto per presentarsi, nella mattina del suo gran giorno, con contrassegni tali da far ritenere superflua un’indagine ulteriore: rasatura, tatuaggi celtici e incisioni nazi, maglietta nera, bandiera tricolore e saluto fascista sembravano esaurire il contesto biografico di uno che era andato su e giù per una città sparando ai negri. E dunque dissuadere dall’eventualità di riconoscervi un sintomo del tempo nuovo, o addirittura un suo campione. Era troppo, per così dire. In altri tempi si sarebbe chiusa la partita sentenziando: “Un pazzo”, quando non si era ancora capito che pazzia e normalità sconfinano l’una nell’altra, e hanno i loro carnevali. In verità quasi nessuno – se non i più ipocriti, i più preoccupati, a torto, di pagare un prezzo elettorale – se la cavò dicendo: “Un pazzo”.
Per un verso si restò sbigottiti, per un altro si sentì che c’era del metodo in quella pazzia, c’era un’aria del tempo. Si continuò tuttavia a sbigottirsi ascoltando gli intervistati: “Non mi fate parlare”, o “Sì, ma…”. Qualcuno ci fu, per esempio in una grande mostra-mercato annuale di armi, che disse senz’altro “Ha fatto bene” e si offrisse a viso aperto di fare meglio. “Uno di noi”, dissero altri, chi per rivendicarlo, chi per segnalare un legame con un sentimento largo. “Uno di noi”, si intitolava la biografia di Anders Behring Breivik, il più ripugnante di tutti gli autoeletti giustizieri dei nostri anni, scritta da Åsne Seierstad nel 2013 (tradotta qui due anni fa. Un pamphlet “provocatorio” era uscito in Francia per la penna di Richard Millet, col titolo commerciale “Éloge littéraire d’Anders Breivik”…). Luca Traini come il nostro Breivik, un Breivik dei poveri, per così dire. Le Norvegia socialista colpita da quella strage avrebbe ceduto il governo alla destra nelle prime elezioni successive.
Da noi è avvenuto qualcosa di più clamoroso e inverosimile. Esattamente un mese dopo la sparatoria di Luca Traini per le strade di Macerata la Lega, di cui lo sparatore era stato candidato a Corridonia un anno prima, passò a Macerata dallo 0,3 per cento delle elezioni del 2013 al 21 per cento, diventando il primo partito della coalizione del centrodestra che così vinse le elezioni. Si ripete che l’onda di reazione è internazionale, sovranismo, xenofobia, ripudio dell’establishment e della politica democratica, ma provate a raccontare la cosa a uno straniero, anche semplicemente un vicino europeo. C’è una cittadina storica dell’Italia centrale, bella, ricca di storia e di monumenti, in cui un uomo compie una caccia al negro e ne ferisce gravemente sei – per caso non li uccide – e un mese dopo il partito nelle cui liste l’uomo era stato candidato passa dallo 0,3 per cento, 153 voti, al 21 per cento, 4.573 voti, e conquista il governo cittadino. Ecco un manuale d’istruzioni per i consulenti elettorali, un poligono di tiro.
Ezio Mauro ha deciso di capire attraverso il “peggiore di tutti” quello che esagerando all’eccesso ha incarnato e messo in caricatura l’italiano dimenticato, maschio, frustrato, espropriato, fascista, in credito col mondo. E però, a raschiare: bianco. “L’uomo bianco, l’indigeno italiano, era l’unico protagonista che ancora mancava nel racconto del grande risentimento nazionale”. L’uomo bianco. Lo è diventato dal momento in cui si è riconosciuto nemico dei neri, del negro, e investito della vendetta su di loro. C’era in Traini un connotato singolare, a investirlo della sua missione, la spedizione punitiva di una mattina, a farlo diverso dagli altri avventori del bar in cui annuncia il suo programma e quelli assentono, ma restano col loro cappuccino e solo lui impugna la pistola: lui non ha paura. O, piuttosto, forse ha più paura di tutti, non sa vedere un presente né un futuro per sé, non si sa vedere insieme ad altri, ma la paura generica, quella che chiamano percepita, quella che trattiene dall’azione e fa auspicare e applaudire l’azione altrui, quella Traini non ce l’ha. Se ce l’ha, è in misura largamente inferiore alla soddisfazione che si aspetta dall’impresa, dal riconoscimento che lui l’ha fatto davvero, lui gliel’ha fatta vedere. E’ tutt’altro che coraggio ed è anche la dimostrazione che lui non è incapace di intendere e di volere: è una mutilazione della misura che chiamiamo umanità, ed è una vigliaccheria, che gli fa decidere, pietoso di sé, di consegnarsi ai carabinieri a mani alzate. Lo fece anche il ributtante Breivik, il Traini dei ricchi, gridando ai poliziotti “Non sparate” dopo aver fatto strage di ragazze e ragazzi inermi. Il cavaliere della paura altrui, il procacciatore di voti altrui, quelli che fanno la loro politica predicando: “Ricordatevi di avere paura!”.
Mauro: “Ricordatevi di avere paura è l’esortazione costante dei moderni predicatori che battono le nostre contrade e picchiano alle nostre porte come monaci medievali”. Ci sono persone, non poche, che hanno ragioni concrete, stringenti, disperanti di avere paura: persone che vivono minacciate, poliziotti e giudici contro i mafiosi, donne braccate dai loro persecutori. Non a loro ma agli altri, alle persone della vita quotidiana, si rivolgono gli spacciatori di paura contraffatta per sicurezza, i fornitori di ronde diventati padroni di governo e di forze dell’ordine: siete voi a meritare una scorta armata ed è a voi che la promettiamo, non a Saviano o al magistrato di Trapani o alla donna inseguita dal suo ex compagno. Pamela, povera ragazza, si guadagnò il denaro di una dose su un giaciglio lurido con un cittadino italiano, uno tranquillo, e andò a cercarsi lo straniero – l’uomo nero – di cui aveva bisogno, prima di essere straziata. In suo nome Traini sparò ai negri e Salvini governa il Viminale.
Questa storia racconta Ezio Mauro in un libro doppio che mette a frutto le sue due qualità proverbiali: di giornalista, antico cronista di nera, che ricostruisce atti, pensieri e parole di Luca Traini, senza tenere né annullare le distanze – del resto Traini, come ogni vivente, ha un futuro imprevedibile – portandolo fuori dall’episodio provinciale. E di uomo studioso e pensoso del destino della democrazia liberale e dell’occidente che con essa coincideva. Era la Repubblica diretta da Mauro, la riflessione e l’attaccamento al modo di vita libero e insidiato e via via assediato dall’esterno e infine attaccato e corroso dal suo interno, da un nuovo che disprezza libertà e democrazia per una propria voglia di potere, e se lo procura anche con la mezza giornata da lupi di Traini.
Una amata e cercata umanità occidentale, quintessenza autocritica di tutto ciò che è umano, che regredisce allo stato dell’uomo bianco, dell’identità per distinzione dalla pelle altrui, ha avuto una lunga incubazione prima della cristallizzazione e avrà bisogno di una rianimazione lunga. La condizione umana è quella di Sisifo, ma non avevamo pensato abbastanza, nel nostro lungo privilegiato dopoguerra, che lentissima e faticosa è la scalata al monte rotolando il proprio macigno, e veloce e travolgente la ricaduta. Ora, avverte Mauro, siamo al punto della ricaduta.
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