Meglio tardi che mai. Il lungo esame di coscienza di MicroMega sui danni del pol. corr.
#Metoo, multiculturalismo e sessuofobia sono "l'oppio della sinistra". I progressisti devono riscoprire la complessità dell’individuo
Non solo una patonza in copertina – benché nell’elegante resa de “L’origine del mondo” di Gustave Courbet, l’olio su tela più censurato dai social – ma addirittura, a pagina cinque, uno sferzante “negri” nello stesso capoverso in cui si cita l’immancabile Hannah Arendt. MicroMega ha deciso di épater le bourgeois: il numero in edicola sciocca il ceto medio riflessivo dedicando un’intera sezione, circa un centinaio di pagine, a un’invettiva a più voci contro il politicamente corretto. Se si gratta tuttavia sotto questa facile superficie ci si accorge che i motivi per restare sorpresi sono altri.
Anzitutto il saggio in cui Paolo Flores D’Arcais taccia il politically correct di “oppio della sinistra”. Spiega infatti che si tratta soltanto di “pluralità delle censure e delle inquisizioni” e che “la logica della società multiculturale è quella di una società progressivamente ghettizzata”, in cui invale un “conformismo radicato”, una “identità coatta” spacciata per “differenza radicale”; una “protezione onerosa” il cui vessillo è il conformismo e in cui alla “libertà del disincanto” (secondo il principio “ogni empietà ha diritto all’espressione”) è stata sostituita la “libertà dal disincanto”, in cui nessuna possibile empietà può essere espressa mai. Si tratta di argomentazioni familiari ai lettori del Foglio – con parole più semplici, magari – ma anche a quelli di MicroMega, stante che è un sapiente collage di vecchi editoriali risalenti a venti, venticinque anni fa, quando non addirittura all’anno di fondazione dell’almanacco, il 1986.
Se si sapeva tutto da trent’anni, dunque, cos’ha consentito alla sinistra mondiale (europea più che italiana, americana più che europea) di diventare il ricettacolo delle pretese più assurde della correttezza politica, e cosa l’ha trasformata in madrina del principio che “ciascuno abbia sull’altro potere di mordacchia”? L’istruttiva lettura dell’almanacco, di fatto un lungo esame di coscienza, fornisce qualche idea inattesa. Certamente alla base di tutto c’è un fraintendimento dell’Illuminismo – MicroMega, com’è noto, nel sottotitolo della testata si offre a “una sinistra illuminista” – e della tolleranza come strumento per l’attecchimento del progresso al solo patto di tenere separata, come più volte esclama Flores D’Arcais, la libertà dalla religione; senza però considerare che altri assolutismi intellettuali si sarebbero imposti con altrettanto danno.
E c’è una più generale concezione teleologica della storia quale setaccio dei giusti, come dimostra l’adesione a denti stretti di Chiara Saraceno all’autocritica. Per la sociologa torinese non c’è niente di male “nella richiesta di rivedere i contenuti dei canoni letterari o artistici avanzati da diversi movimenti sociali che si fanno portavoce di soggetti la cui voce ed espressione sono state a lungo tacitate e spesso anche denigrate come incapaci di qualificarsi come cultura alta”, a patto che non diventi il tentativo di imporre un controcanone politicamente corretto altrettanto insindacabile. Ciò presuppone tuttavia una lettura del progresso come continuo ripensamento del passato, che rischia di incartarsi in rovello volto a valorizzare aspetti sempre più secondari, e talvolta ridicoli, di ciò che è stato: è in base a questo stesso principio che gli studenti del Reed College l’anno scorso hanno chiesto a Steve Martin ragione di uno sketch del 1972 in cui appariva truccato da Tutankhamon.
In terzo luogo non si può sottovalutare la funzione del linguaggio. Dai tempi in cui Marx esortava i filosofi a cambiare il mondo, anziché a descriverlo, per la sinistra la parola è stata azione. Ora tuttavia viviamo in un tempo che sembra l’indefinito prolungamento dell’Undicesima tesi contro Feuerbach, sminuzzata in un’argomentazione popolare che Gloria Origgi sintetizza così: si parte dall’assunto che la verità sia solo espressione della prospettiva di una classe dominante e si arriva alla conclusione che il linguaggio sia uno strumento di dominio sul mondo. Secondo la Origgi il politicamente corretto deriva da una certa visione performativa (e, aggiungerei, superstiziosa) delle parole: “Il linguaggio è violenza, perché la parola è azione e può modificare profondamente la personalità della vittima della violenza linguistica”. Per questo le parole vanno combattute e cambiate. In questo modo, conclude tuttavia, si è creata una generazione che, avendo rifiutato l’apporto descrittivo del linguaggio e il valore oggettivo della realtà, si bea di crescere “ideologica, chiusa al dibattito, troppo vulnerabile e profondamente ignorante per sua stessa scelta”.
La questione centrale appare tuttavia l’attrito fra individuo e collettivo, che anche a un lettore superficiale può sembrare il leitmotiv dell’almanacco. Flores D’Arcais ha molta ragione quando rimprovera al politicamente corretto di esaltare solo le differenze collettive (“genere, etnia, preferenza sessuale”) riservando a chi cerca di affermare l’identità individuale lo stesso trattamento che Lenin proponeva per l’operaio non leninista, “infiltrato della piccola borghesia in seno alla classe operaia”. Altrettanta ne ha Élisabeth Badinter lì dove rimprovera alle cosiddette “femministe islamiche” convinte di indossare liberamente il velo, e alle loro ingenue supporter, di spacciare per rivendicazione del diritto a disporre del proprio corpo ciò che è solo “una sofisticata espressione di individualismo”. Si pone dunque la questione di capire se la correttezza politica sia una particolare forma di ipocrisia collettivista (e quindi potenzialmente totalitaria) oppure individualista (e quindi sottoposta a una customizzazione dei diritti, che in senso lato può essere definita di stampo capitalista).
Le parole più sagge al riguardo arrivano da Gérard Biard, che di politicamente corretto se ne intende e come, essendo caporedattore di Charlie Hebdo. La questione, secondo Biard, non sta solo nel riconoscimento del fatto che ognuno ha una particolare sensibilità ma non può espandere a tutta la società i limiti che valgono solo per lui. Questa considerazione di buon senso è subordinata al riconoscimento che l’individuo stesso è una moltitudine, e al ripescaggio del meticciato come chiave di volta per una sinistra che superi positivamente il giogo della correttezza politica: “Non si può definire l’identità in modo univoco: essa è al contrario multiforme, in quanto siamo costituiti dalla nostra storia e dalle nostre radici ma anche dagli incontri che abbiamo fatto durante la nostra vita, dall’educazione ricevuta e dalle riflessioni maturate nel corso del tempo”.
Si tratta dunque, per la sinistra, di riscoprire la complessità dell’individuo per comprendere che nessuna identità può essere monolitica o, peggio, monotematica (sessuale, etnica, linguistica). Si tratterebbe anche, per la destra, di riscoprire la preminenza dell’individuo per non cadere nel tranello del politicamente scorretto – ossia contrapporre a un’identità forzatamente giusta un’identità forzatamente trasgressiva – e per distinguersi dai borborigmi di un Trump o di un Salvini; solo ci vorrebbe un altro almanacco illuminista che spieghi come.
generazione ansiosa