Se non ci fidiamo più degli altri è perché non parliamo più al telefono
Da Gianna Nannini alla fine della reciprocità. Com'è che abbiamo smesso di essere disponibili per chi ci cerca da quando ci sono gli smartphone?
Parlare di telefono ci consente di ragionare di reciprocità. L’avremmo mai detto, vent’anni fa, quando Massimo Lopez , in una pubblicità della Sip (la Sip!), si salvava la vita chiedendo di poter fare una telefonata, come ultimo desiderio, prima di venire fucilato, e rimaneva poi a parlare per ore e ore, e giorni, e notti?
Lo facevamo tutti: ore di chiacchiere che ci costavano bollette rovinose e allora cercavamo tariffe convenienti come oggi cerchiamo offerte Amazon, e avevamo una scheda per ogni persona importante, che significava migliaia di minuti gratis per ciascuna di loro. Succedeva anche molto meno di vent’anni fa. E adesso? Al telefono non parla più nessuno, a parte presidenti, spie, genitori, truffatori. Gli altri scrivono. In direct message (specie tra influencer: “Scrivetemi in dm, se avete domande”, ci dicono, guardandoci negli occhi, dal Instagram); su Whatsapp; su Messenger; su Telegram. Email? Dipende, ma di certo assai meno di prima. Sms? No, proprio no: stanno estinguendosi anche quelli, dopo 25 anni di carriera: nel 2000 ce ne scambiammo 17 miliardi; nel 2012 solo 8 miliardi e da allora sempre a scalare. I messaggi hanno fatto presto a diventare troppo lenti, troppo brevi, troppo poco capienti.
Questa settimana il New York Times ha tirato fuori che i servizi segreti russi e cinesi spiano, indisturbati, tutte le telefonate di Donald Trump. Alla Casa Bianca sono tutti molto preoccupati, tranne il presidente, che si rifiuta di tutelare la riservatezza delle sue comunicazioni. Dopotutto, la sua presidenza è un reality show e il sovranismo tiene alla trasparenza. Il portavoce del ministro degli Esteri di Pechino ci ha scherzato su, ha consigliato agli americani di usare uno Huawei, se gli iPhone sono facilmente intercettabili. Canaglia d’un cinese.
Trump non può mandare faccette a Putin (ma magari scopriremo che lo fa, e che il futuro dei prossimi cinque anni è stato scritto, in codice, dentro un rebus, dentro una sequenza indecifrabile di insospettabili emoji), però noi sì, noi possiamo risolvere i nostri guai inviando un cuoricino, intatto o spezzato, rosso o nero o viola o blu, all’amico che vogliamo salvare, all’amore che vogliamo resuscitare o distruggere, al padre che non vogliamo imbarazzare, a prescindere dalla loro voglia di riceverlo, di riceverci, di avere nostre notizie, coccole, confessioni, richieste, sfoghi, idiozie, barzellette. Il punto è questo qui: la nostra comunicazione prescinde dal consenso. A nessuno di noi verrebbe mai in mente di domandarsi, prima di contattare qualcuno su Whatsapp, se quel qualcuno sia disponibile per noi, se abbia voglia di parlarci. Diamo per scontato che sia così? Peggio: non ci poniamo il problema. Prescindere dalla disponibilità dell’altro, fintanto che abbiamo comunicato telefonandoci, è stato impossibile. My phone’s on vibrate for you, cantava Rufus Wainwright in Vibrate (era il 2003) e descriveva perfettamente come parlare al telefono fosse un fatto di voglia reciproca, di consenso condiviso, di accordo tra le parti, di scelta, d’incontro. E state certamente pensando anche a Fotoromanza di Gianna Nannini: ti telefono o no, io non cedo per prima, chissà chi vincerà. Ci parlavamo e salvavamo e amavamo a patto che fossimo tutti d’accordo, a patto che uno avesse composto il numero e un altro gli avesse risposto. Ora, a meno che non siate state molto molto cattive e lui non vi abbia bloccato il numero, potete dirgli cosa avete da dirgli anche se lui non vi risponde, se non vi vuole, se è finita. L’altro può essere per noi solo irreperibile, ma mai irraggiungibile.
Alexis Madrigal ha scritto sull’Atlantic che smettere di rispondere al telefono ci ha disabituati a essere disponibili per gli altri. Perché c’è anche questo effetto terribile da considerare, insieme all’indebolimento della reciprocità: se prima rispondevamo sempre, perché dietro ogni squillo non sapevamo chi ci fosse e quindi avrebbe potuto esserci qualcuno di importante, qualcuno che avesse bisogno di noi, ora possiamo scegliere. E la scelta è quasi sempre: no, non rispondo. Perché parlare è impegnativo. Perché cosa accidenti vuole, questo cafone, mentre sono a lavoro, a cena, in pausa, in palestra, indisposta? Perché potrebbe essere una truffa o, peggio, qualcuno che, dalla Romania o da chissà dove, vuole farci abbonare a chissà cosa, venderci una vacanza, chiederci cosa ne pensiamo del Corriere della Sera. Questa possibilità precisa ci ha abituati a diffidare dell’altro, ad aspettarci che ogni suo contatto, ogni sua richiesta, sia sempre un’intrusione, un imprevisto sgradevole, che grazie al cielo possiamo evitare.
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