Vincent van Gogh, "I mangiatori di patate" (1885)

Meglio una società povera ma virtuosa. Il dogma grillino che rifiuta lo sviluppo

Giuseppe Bedeschi

L'ispiratore è sempre Rousseau, adattato ai tempi correnti

Il rifiuto dello sviluppo industriale perché foriero di gravi inconvenienti per la società, e la difesa del pauperismo perché “virtuoso”, hanno profonde radici nella cultura europea. Il difensore più appassionato e intransigente di queste posizioni è stato sicuramente Jean-Jacques Rousseau. Dedicarsi all’agricoltura e non alle industrie, limitare al minimo gli scambi e farli il più possibile in natura, sopprimere dovunque commercio e finanza, rendere inutile il denaro: questi gli obiettivi economici indicati dal ginevrino per realizzare una società virtuosa e felice.

 

Questi temi sono al centro del saggio di Rousseau sul Progetto di costituzione per la Corsica (1765). Qui egli tesse un vero e proprio inno all’agricoltura (contro l’industria, contro il commercio), in quanto l’agricoltura plasma dei buoni patrioti e conserva l’indipendenza della nazione. In ogni paese gli abitanti della campagna generano più figli di quelli della città; inoltre la semplicità della vita agreste e l’assiduità al lavoro prevengono il disordine e i vizi. L’agricoltura, col suo stile di vita laborioso e frugale, con la sua semplicità, con il suo attaccamento alla terra, costituisce quindi la base economica ideale della repubblica. Perciò bisogna fare di tutto per preservarla, mettendola al riparo da fattori altamente nocivi e dissolventi come l’industria, il sistema mercantile, la finanza, il lusso. La prima cosa da abolire è il denaro: “Gli scambi – dice Rousseau – potranno essere fatti in natura e senza valori intermedi, e si potrà vivere nell’abbondanza senza mai toccare un soldo”. La repubblica democratica corsa dovrà quindi avere come base e spina dorsale una classe di piccoli coltivatori autonomi, che produrranno tutta la ricchezza della nazione, e che provvederanno ai propri bisogni direttamente, eventualmente con l’aiuto di artigiani, ma senza scambi in denaro, bensì solo in natura. La condizione essenziale perché questo sistema si preservi è che le proprietà agricole restino piccole, che non crescano al di là di un certo limite (dunque non ci devono essere sviluppo e crescita economica).

 

Rousseau non si è mai proposto di abolire completamente la proprietà privata, “ma (sono sue parole) di circoscriverla entro limiti assai ristretti, di darle una misura (…) che la tenga sempre subordinata al bene pubblico. Voglio, in una parola, che la proprietà dello stato sia grande e forte, mentre quella dei cittadini resti, per quanto è possibile, piccola e debole”. Qui il ginevrino non poteva esprimere meglio la propria vocazione statalistica: lo stato non deve solo plasmare tutti i pensieri, tutti i sentimenti, tutte le aspirazioni degli individui, per farne dei cittadini interamente devoti alla patria; lo stato deve essere anche uno stato proprietario (“sono ben lontano dal desiderare che lo stato sia povero; vorrei, al contrario, che possedesse tutto”), affinché esso possa regolare la sfera economica in tutti i suoi aspetti.

 

Molti di questi motivi non sono rimasti sepolti nei libri di Rousseau, e sono riapparsi, in varie forme, nella nostra storia e nella nostra cultura politica. Un esempio, non molto lontano nel tempo, è quello di Enrico Berlinguer che, in un momento drammatico per l’Italia (nel 1977, durante la grave crisi indotta dall’aumento eccezionale del prezzo del petrolio) invocò come via d’uscita l’“austerità”. Cosa intendeva Berlinguer con questa parola? Intendeva dire che all’origine della nostra crisi c’erano “lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione del particolarismo e dell’individualismo più sfrenati, il consumismo più dissennato”. Occorreva dunque “abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi”… In una parola, occorreva “austerità”, per passare a un diverso modello di società, a una nuova qualità della vita, spostando risorse dai consumi individuali ai bisogni collettivi.

 

Berlinguer dunque riteneva possibile, anzi necessario, in una economia come la nostra, che era ormai tra le prime del mondo, bloccare interi settori dell’industria (quelli che producevano beni “alienanti”). Ciò avrebbe aggravato la crisi economica? Importava poco o nulla, perché, diceva il segretario del Pci, nelle “società in ascesa vanno insieme la giustizia e la parsimonia”. Sono posizioni, queste, che riappaiono anche oggi, sia pure in forme mutate. Nei 5 stelle predomina l’idea che occorra, prima di tutto, sviluppare una politica assistenziale, al di là, molto al di là delle risorse disponibili; che occorra, nel contempo, bloccare tutte le grandi opere, e puntare su piccole opere, vicine ai cittadini. Ciò porta a bloccare o a compromettere gravemente lo sviluppo economico? Poco importa, perché lo sviluppo entra in conflitto con la “giustizia sociale”. Meglio dunque una società povera ma virtuosa (in cui la situazione dei disagiati si aggraverà sempre più). E meglio che lo stato si sostituisca ai privati, e possegga interi settori della società (come ha dichiarato Di Battista).

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