Sandro Mayer, garbato e popolare, ha trasformato i rotocalchi e il “gentismo”
Il giornalista, direttore di Gente per vent'anni, giudice di Ballando con le stelle, è morto a Roma all'età di 77 anni. Dal 2004 dirigeva alcune testate della Cairo editore
Il sorriso era la sua maschera, messa non per nascondere chissà che perfidia ma per celare sfumature e dubbi da intellettuale. Un sorriso passepartout, che nasce teatrale e non ha difficoltà poi a diventare televisivo. Sandro Mayer poteva andare a lavorare alla Fiat, con la lettera di assunzione in tasca, ma da ragazzo è scappato in Inghilterra e ha imparato l’inglese tra tavoli e cucina. E, dopo una laurea italiana in Scienze politiche, di quelle scelte un po’ per decidere che fare poi, a Londra ha annusato il giornalismo fatto di persone, debolezze, passioni, vita. Da trasferire poi in Italia, dove non ha mai neanche lontanamente pensato di finire a scrivere pensosi editoriali o a fare il broker di potere nei giornali di potere. Gentista ante litteram, dopo Novella 2000 e Epoca fa per 20 anni, appunto, il direttore di Gente. Gentista, come si diceva, più che vippista: e quindi anni a raccontare microstorie e drammoni, a spiegare la transizione (il suo primo libro racconta i Capelloni, come intorno al ’68 si chiamavano i ragazzi che volevano staccarsi dalla tradizione). Mette microstorie e drammoni a confronto con i pochi grandi punti fermi nella sua visione dell’Italia e nella sua personale teleologia. Quindi – lo rivela negli anni della maturità professionale – nessuna paura a misurarsi con le vicende generatrici della cultura occidentale per popolarizzarle, con titoli, quelli dei suoi libri, talmente iperbolici da diventare simpatici: “La Grande Storia di Gesù”, poi “La Grande Storia della Bibbia” , e prima, più alla portata forse, “La Grande Storia di Padre Pio” (tutti scritti con Osvaldo Orlandini).
Divulgazione e popolarizzazione, frutto anche dell’incontro con Cairo Editore, la sua ultima casa editoriale dopo la fine dell’esperienza con Gente. Dal gentismo non si è mai voluto convertire in pieno al vippismo, ha dovuto fare qualche virata, qualche correzione e qualche ammiccamento quando i personaggi televisivi, con la loro aria da Vip di riporto, hanno rubato la scena alla gente comune (forse perché l’italiano medio diventava nel frattempo idolo politico, trasformando i famosi televisivi nei suoi cantori). Da qualche anno il suo gentismo riaffiorava, come se, sorridendo certo, e con una gentilezza travolgente, volesse rimettere però le cose a posto. Si notava nel piglio con cui, dietro al sorriso, difendeva comunque il suo ruolo di giudice nientemeno che di “Ballando con le Stelle”. E lui, già direttorissimo e dotato di una parola comunque di peso per costruire o smontare carriere, sorrideva e ringraziava, ancora pochi giorni fa, Milly Carlucci, per avergli dato questa meravigliosa opportunità, la cui partenza, a ogni stagione, diceva di aspettare con entusiasmo.
Ma da giudice, diremmo, restava indipendente, con una passione comunque per le persone e le storie non centrali. Aveva scritto tanto di un temaccio come l’amore, con titoli che, anche in questo caso, escludevano la timidezza e sprizzavano vitalità: “Dichiarazione d’amore”, “Bivio d’amore”, “Amore senza parole” (una canzone, che ottenne anche premi). Gli affetti come motore della vita diceva di averli imparati a Napoli, dove si era trovato da ragazzino con la famiglia e dove cominciò la sua attività giornalistica “ascoltando le voci dai bassi”, registrando nella sua memoria emozioni, confusione, desideri. Da restituire poi nelle pagine dei suoi rotocalchi. Fondava giornali e poi li raccontava. Si divertiva davvero con e tra le creature editoriali di Cairo. Aveva dei fantastici capelli trapiantati, condonati grazie all’ammissione televisiva dell’intervento. E' morto a Roma, a 77 anni, sapendo sì di star male ma pensando alle prossime stagioni da giudice televisivo, bonario ma con un conto aperto: mettere il vippismo al suo posto e far trionfare di nuovo la sua gente.
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