La ferragnizzazione di Condé Nast nell'epoca dei direttori instagrammer
Simone Marchetti a Vanity Fair, perfetto per la contemporaneità
Roma. Poi sono arrivati Dolce e Gabbana e la Cina, dunque tutto è passato in secondo piano. Ma prima di mercoledì scorso, la grande questione che teneva banco negli epicentri milanesi della moda e non solo, è stata questa: l’annuncio di un nuovo direttore a Vanity Fair, nello specifico un direttore proveniente dal mondo delle passerelle. Direttore che non ha mai diretto nulla.
Simone Marchetti, quarantacinque anni, dal Gruppo Espresso. Mai diretto nulla, sì, ma una grande esperienza di video e soprattutto di social, Marchetti è arrivato nel 2006 all’Espresso cominciando a collaborare al mensile Velvet. Poi nel 2009 entra nella squadra che segue Seidimoda.com, il canale delle sfilate. Nel 2011 partecipa al lancio di D.Repubblica.it e inizia a scrivere per Rep cartaceo e a tenere una rubrica fissa su Affari&Finanza.
Oggi è fashion editor a D.Repubblica.it, inviato alle sfilate e ideatore di documentari che vanno sull’online, e soprattutto conduttore di “Mix&Match”, game show di Sky Uno in cui i concorrenti si sfidano per indossare “il guardaroba delle meraviglie”. Insomma, è uomo televisivo e di social media, e in questo rientra perfettamente nella nuova veste che il gruppo Condé Nast, editore di Vanity, sta adottando: una specie di smaterializzazione e digitalizzazione, di ferragnizzazione (l’ex fidanzato e mentore della Ferragni, Riccardo Pozzoli, oggi è peraltro a capo di Condé Nast Social Talents, mentre il gruppo ha lanciato un corso di “Social academy” alla Bocconi).
Non che Marchetti abbia un seguito planetario: su Instagram centocinquemila seguaci, lontano dall’empireo ferragneziano, ma evidentemente i seguaci si pesano e non si contano. Lui del resto spiega, come manifesto programmatico, che “viviamo finalmente in un’epoca di storie e di possibilità innumerevoli per raccontarle”, ha detto a SkyTg24. “L’esperienza con Mix&Match, per esempio, si inserisce in un grande puzzle fatto di piccoli e grandi capitoli narrativi. La scrittura sul quotidiano Repubblica. I documentari sulla moda girati per il sito. L’impegno sui social, in primis su Instagram. Ecco, tutto questo è il mio lavoro da giornalista: una sorta di grande network, vivente e diversificato, che ha un solo obiettivo, ovvero spiegare e raccontare quanto la moda non sia soltanto vestiti ma un settore di eccellenza, di artigianalità, di mestieri”.
L’arrivo del poliedrico Marchetti a piazzale Cadorna ha scosso gli animi sensibili dell’editoria milanese (e quelli ancor più sensibili della moda). Qualcuno storce il naso, perché sarebbe molto (troppo) influencer, al punto da indossare troppo generosamente i capi degli stilisti perdendo forse di indipendenza, ma ormai chissà, son saltati tutti i criteri. I grandi gruppi non sanno più che fare per vendere i loro abiti ai famigerati millennial, e i giornali per vendere qualche copia a chiunque. Instagram pare la panacea a tutti i mali. Così la sciura globale e editor di Vogue International, Suzy Menkes, ormai posta stories e selfie scatenata come una fashion blogger adolescente (400mila follower, “questo lato della mia personalità non era venuto fuori in tutti gli anni all’Herald Tribune, dove non si supponeva di doverci mostrare personalmente”, ha detto). Lindsay People Wagner, già boss di The Cut, è appena stata presa a Teen Vogue grazie forse ai suoi 23 mila follower. Le aziende editoriali stilano regole per evitare conflitti di interessi tra i loro giornalisti che di punto in bianco diventano star instagrammatiche. Tanti di loro arrotondano. Prevale la fantasia salvifica che i followers dei direttori o giornalisti si trasferiscano, moltiplicandosi tipo cornucopia, alle testate.
E poi, se la persona più influente nel mondo della moda è Chiara Ferragni, e se in fondo anche al governo ci sono influencers che poco vanno ai ministeri, lasciando il lavoro grosso evidentemente alle retrovie, perché non ripensare un direttore come testimonial o superblogger? Milanese, laureato in filosofia, un fidanzato, due cani, una vita che brilla di luce Clarendon, Marchetti è perfetto per la contemporaneità. Nell’isteria del momento taluni l’hanno ritenuto persino imparentato col più liquido Federico Marchetti, fondatore di Yoox, che peraltro è sponsor di “Mix&Match” (tanto che uno dei primi risultati su Google è “fratello di”). Ma naturalmente non lo è.
E forse la scelta dell’ad di Condé Nast Alessandro Usai e del direttore editoriale di Condé Nast Luca Dini sarà in futuro seguita da molti, e ci ritroveremo solo direttori instagrammatici. Fine dei direttori “classici”. E la nomina di Marchetti rientrerà negli azzardi fortunati della storia del Vanity Fair italiano, un unicum: nato negli anni Novanta, fece il botto nei primi Duemila con la direzione geniale di Carlo Verdelli che lo trasformò da mensile in settimanale facendo la gioia degli inserzionisti. Mischiava alto e basso, un po’ Chi e un po’ Micromega, gossip ma con juicio, libri e oroscopi però d’autore. Poi col tempo son cambiate le gestioni, prima Luca Dini (2006-2017), che oggi ricopre appunto la carica di direttore editoriale di tutti i brand del gruppo, e poi per un anno e mezzo Daniela Hamaui, anche lei ex Espresso, già inventrice del primo glorioso D di Repubblica. Intanto a Vanity oggi ci sono un vicedirettore “scrivente” e sofisticato come Malcom Pagani (ex Espresso, ex Fatto Quotidiano) e un vice per il digitale, Serena Danna (che si dice in uscita per andare al fatidico magazine di Enrico Mentana). Nel palazzetto di Condé Nast è stata richiamata Justine Bellavita, già a capo di Vogue International, e oggi rientrata a Milano col ruolo di capo di tutto il digital.
A piazzale Cadorna, intanto, si va avanti. Son stati fatti tagli, l’ammiraglia Vogue va bene col nuovo direttore Emanuele Farneti (direttore assai classico, ex AD, ex GQ), per niente fashion victim. Vogue Uomo è tornato in edicola, solo in inglese. Vediamo come andrà adesso Vanity.
La ferragnizzazione di Condé Nast prosegue globale: il glorioso gruppone americano che insegna a vestirsi (Vogue), ad arredare casa (AD) e a usare il computer (Wired) è in preda ad ampia e fatale trasformazione. Un anno fa ci fu la morte del grande patriarca, S.I. Newshouse, l’ultimo tycoon della carta stampata. Il gruppo arranca come tutti. Si rincorrono voci – che venga comprato da Apple, prossima vittima della Silicon Valley avida di trophy assets di quella roba vintage che è la carta. Negli ultimi giorni si è saputo che il Glamour americano, altra rivista storica di casa, sarà solo online. Intanto a Milano si è inaugurato il “Vanity stories”, primo festival del settimanale, due giorni al cinema Anteo di Milano. Si dice anche che la testata stia studiando di sbarcare su una piattaforma di contenuti televisivi. Si fa insomma come si può, nell’epoca della fiera della vanità.
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