I giovani mediocri e cosa resterà del giletgiallismo
Leggere Gérard Lauzier per capire come siamo arrivati al ribellismo dei gilet gialli
Cosa resterà del giletgiallismo? Michele Serra ha scritto sull’Espresso: “Basta indossare un gilet giallo e ogni tipo di malessere, dalla miseria nera ai maldicenti, assume la stessa rilevanza politica. Il disperato senza lavoro e il paraculo che non vuole pagare il bollo della Kawasaki, con un gilet giallo addosso, sono indistinguibili”. Si tratta, ancora una volta, di ribellismo qualunquista e confuso, come quello dei forconi, e della stragrande maggioranza dei movimenti di contestazione post sessantottini alla cui incredibile, drammatica forza disgregante dobbiamo forse cominciare a rassegnarci? Non sarebbe una resa al pessimismo, ma un’adesione al principio di realtà. E scusate se sembra borghese o borghesuccio. “Il mondo, come il fumetto, non è altro che una tautologia. E’ quello che è. Non vale affaticarsi perché divenga altro. Meglio riderne fragorosamente”, ha scritto Boris Battaglia nella postfazione a “Sono un giovane mediocre”, il “romanzo grafico di Gérard Lauzier”, uscito da poco in Italia per Rizzoli Lizard, e che riunisce due lavori dell’autore, “Souvenirs d’un jeune hommes” e “Portrait de l’artiste”, pubblicati in Francia il primo nel 1983 e il secondo nel 1992, anni di reflusso e post reflusso.
Anni in cui “siamo arrivati noi e tutto è ripiegato nel sociale ed ecco perché odiamo il ’68: perché è stato quando s’è provato a fare la rivoluzione e noi non c’eravamo”, ha scritto Francesco Bianconi dei Baustelle su Robinson di domenica scorsa (ieri i Baustelle hanno inaugurato un ciclo di incontri con gli studenti universitari, dai quali sperano di sentirsi dire com’è “stare seduti in questo presente, perché a noi vecchi che non lo capiamo sembrate muti”). Bianconi ha qualche anno in meno di Choupon, il protagonista dei fumetti di Lauzier, ma non conta: appartengono entrambi a un tempo in cui fare la rivoluzione è impossibile non tanto per colpa del ’68, come è stato detto per molto tempo, quanto per il progressismo che s’è instaurato dopo e che ha imposto l’obbligo – che Battaglia definisce “malattia cognitivo degenerativa” – di far corrispondere etica e narrazione, giusto e bello. E’ a questa imposizione, che Lauzier fotografa con un senso molto meno sofferto e più dissacrante – più cinico – di quello di Andrea Pazienza, che si sono contrapposti il ribellismo per il ribellismo, i forconi, l’urlo, il rigetto, il qualunquismo (e il populismo che ha contribuito a generare).
Choupon è un ragazzino degli anni Ottanta molto simile a un giletgiallista: tifa giustizia sociale e non s’accorge che, mentre lo fa, tifa sfascio. Perché è un incompetente, un ignorante, un esteta del sé, un moralista amorale, uno che si crede unico e inassimilabile, uno che crede che la rivoluzione si faccia migliorando quelli meno fortunati di lui (la ragazza di periferia di cui s’innamora e che costringe a vedere film della Nouvelle Vague, mentre a lei interessa “solo Alain Delon”), ricordando a suo padre che c’è la questione palestinese, a sua madre che ha sposato un superficiale, a sé stesso che è un artista. Uno che, soprattutto, ciondola tra l’odio e l’amore per sé, in attesa che sia la società a spingerlo verso l’uno o l’altro. Quando Lauzeir, che era uno spassoso reazionario, inventò il Choupon diciottenne di “Souvenirs d’une jeune homme”, ricorda Raffaele Alberto Ventura nella prefazione, i rivoluzionari “passavano dal colletto alla Mao al Rotary Club”, la Francia era in mano a Mitterand, che prometteva di portare all’Eliseo le istanze del maggio sessantottino.
Il Choupon di dieci anni dopo, un quasi trentenne in equilibrio tra vita artistica e vita familiare, e che vive in un tempo in cui il Partito socialista francese ha perso ogni velleità di cambiamento, Lauzier lo ritrae fermo nello stesso impasse, nello stesso orrore di sé trasfigurato in orrore per tutto: il ragazzo non sa che cosa vuole perché non sa accettare che il suo solo interesse è che il mondo gli lasci carta bianca, si dimentichi che è un mediocre e gli riconosca che ha l’X-Factor.
“Dato che non è più colpa della società, di chi è la colpa? Mia? Sarà genetica?”, si domanda Choupon, alla fine, guardandosi allo specchio e vedendosi cane. Con tanto di giacca – tuttavia senza gilet.
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