Dolce e Gabbana nel video di scuse dopo lo spot ritenuto offensivo dai cinesi

Il mantra delle video-scuse

Andrea Minuz

Da Macron a Di Maio padre, da D&G a Fedez. Tutti quanti dicono “I’m sorry”, fingendo di crederci

Di Maio padre ai suoi operai, Dolce & Gabbana ai cinesi, Macron alla Francia o Fedez alla lattuga del Carrefour. A reti unificate o postate su Facebook e Instagram, le pubbliche scuse in forma di video sono il format dei nostri tempi. Raccontano bene il terrore della perdita del consenso, la dittatura del giudizio degli altri, la cultura del politicamente corretto, il trionfo assoluto della logica dei reality, della gogna e della tirannia dell’onestà, con tutta la valanga penitenziale che ne consegue. “Ho sbagliato, chiedo scusa a tutti”, ripetuto come un mantra, fingendo di crederci, sforzandosi di crederci, augurandosi che basti a ricucire lo strappo, il danno d’immagine, il crollo nei sondaggi o nelle vendite o nei like, ma anche rischiando, come spesso accade, l’effetto-boomerang, il teatro dell’assurdo, il non-sense: “Ho lanciato una foglia di lattuga, sono stato preso dall’euforia della festa e chiedo umilmente scusa per questo”, dice Fedez in lacrime su Instagram. Potremo mai perdonarlo? Il video-perdono è il rovescio distopico del motto warholiano: tutti in futuro saremo obbligati a quindici minuti di scuse pubbliche. Dai piani altissimi di Willy Brandt che si inginocchiava al ghetto di Varsavia si è fatalmente giunti al video-messaggio di scuse a portata di tutti e per tutto, anche per chi offende i vigili urbani di Roma.

   


Raccontano bene la dittatura del giudizio degli altri, il trionfo della logica dei reality, della gogna e della tirannia dell’onestà


    

Lo scorso anno fece scalpore la notizia dei video caricati su YouTube da chi era stato denunciato per oltraggio a pubblico ufficiale. Il malcapitato doveva registrare un messaggio di scuse leggendo un testo prestabilito in cui chiedeva perdono, esprimeva apprezzamento per il lavoro esemplare della polizia municipale nella città, e prometteva infine di non rifarlo mai più. Nell’imbarazzo generale, Virginia Raggi disse in seguito che avrebbe “rivisto questa pratica di video-scuse ai vigili”, pratica che era stata introdotta dall’ex-comandante della polizia, Raffaele Clemente. Puro Zeitgeist. Noi però li invitiamo a ripensarci, li invitiamo a osare di più; vorremo lasciare ai posteri anche le video-scuse per chi oltraggia l’Ama o la richiesta di perdono in ginocchio dall’Atac per chi osa lamentarsi in modo pesante dei mezzi pubblici a Roma: “Chiedo scusa, non è l’autobus che non passava, sono io che sono arrivato tardi alla fermata”; “non ho mai detto che Roma è piena di monnezza, le mie parole sono state fraintese, chiedo scusa a tutti”. Qualche giorno fa una YouTuber thailandese ha bollato come “brutto” un abito disegnato dalla principessa. Ora rischia il carcere per “lesa maestà”. Gli amici milanesi che si sono divertiti a prendere in giro l’abito “da pretora”, indossato da Virginia Raggi sul red carpet per la prima al Teatro dell’Opera (una bellissima creazione di Camillo Bona, sia chiaro), magari mettendole anche accanto l’immagine di impeccabile sobrietà del sindaco Sala e della sua compagna Chiara Bazoli alla Scala, sono avvertiti.

  


Le scuse come risarcimento simbolico per ogni mancata assunzione di responsabilità. Il compiacimento narcisistico


       

Esistono ormai una pragmatica gestuale, una prossemica, nonché un narcisismo, un esibizionismo delle scuse pubbliche. Esiste tutta una liturgia del perdono mediatico che in questi anni ha preso forma anzitutto dentro la cultura di Internet e degli youtuber e che oggi attraversa i contesti più disparati, a cominciare naturalmente dalla politica. Se Obama è stato “il presidente che ha insegnato agli uomini come piangere”, Macron rischia di passare alla storia come il leader che più di tutti ha offerto alla retorica del “popolo contro le élite” una sua rappresentazione plastica inequivocabile. Da un lato, il fulgido pupillo dell’Ena, la creazione dell’establishment europeo che guarda fisso nella telecamera in un’inquadratura più stretta del solito, un’inquadratura che sta lì a simboleggiare vicinanza alle sofferenze della Francia ma che invece lo congela nella sontuosità dell’Eliseo a reti unificate. Dall’altra, il popolo catarifrangente che urla, sfascia e scalcia e sbraita nei microfoni dei giornalisti sugli Champs-Élysée; e però rivendica più di lui di essere “la France”, “le peuple en mouvement”, una marea gialla cui nel frattempo si aggiungevano le Femen, immancabili, qui in versione Marianne, anche se sembravano appena uscite dall’orgia in maschera di “Eyes Wide Shut”. Movimento, cagnara, bandiere francesi che sventolano in piazza contro la fissità del vessillo europeo che se ne sta lì, immobile e floscio, alle spalle di Macron che parla alla nazione. Un video nelle banlieue o dal fornaio o in bicicletta sul lungosenna sarebbe stato più adatto? Chissà. L’espiazione mediatica non è una scienza esatta, ma questo di certo non ha funzionato granché. La replica macroniana alla formidabile operazione comunicativa con cui i gilets jaunes hanno fatto irruzione nella scena pubblica (una “divisa geniale che identifica il popolo all’attacco a beneficio di chi ti guarda nei monitor e nelle tv all news”, ha scritto Giuliano Ferrara) non fa che confermare il convincimento populista; non fa cioè che riempire di immagini portentose tutte quelle parole vuote come “casta”, “palazzo”, “popolo” e “piazza” che hanno fatto la fortuna dei leader antieuropeisti di questi anni e soprattutto unito nell’incazzatura, nel risentimento e all’occorrenza nell’ossessione complottista del “giudaismo finanziario” una galassia che va dai No Tav a Casa Pound. Alla rivolta che per prima ha dato al mondo “dopo la destra e la sinistra” un lessico visivo, un colore rifulgente in cui specchiarsi (peraltro lo stesso della copertina dell’ultimo libro di Vespa, “Rivoluzione”) e una formidabile divisa militante che fa impallidire l’eskimo delle barricate del maggio francese, Macron risponde con un testo di scuse letto sul gobbo, scandito in modo robotico fissando la telecamera, giocandosi la “madre sola con un figlio che non arriva a fine mese”, sfoderando infine un assai timido “vive la France”. Sbaraglia gli ascolti, per carità (e ci ricorda che le reti unificate sono la vendetta della vecchia televisione sui nuovi media che ormai le hanno usurpato anche la diretta a colpi di tweet e video fatti col telefonino), ma ci regala soprattutto l’immagine raggelante di un potere astratto, lento a comprendere i processi in corso, e che si caca pure un po’ sotto. “Senza dubbio, non abbiamo saputo fornire una risposta, mi assumo la mia parte di responsabilità” ha detto Macron, mentre su Amazon il prezzo dei gilet catarifrangenti saliva del trenta per cento. Come rappresentazione delle élite, allora, molto meglio Mattarella che si alza in piedi alla Scala tra applausi scroscianti e interminabili, salutato quale baluardo di cultura e civiltà contro la barbarie e la teppaglia (andava in scena “Attila”, non a caso).

   


Esistono ormai una pragmatica gestuale, una prossemica, nonché un narcisismo, un esibizionismo delle scuse pubbliche


 

A un populismo che dai e dai ha trovato un codice di rappresentazione ufficiale e d’impatto immediato, l’ufficialità del potere fatica a replicare con la stessa forza e capacità di penetrazione nell’immaginario collettivo (ma a far tornare indietro nel tempo la novità comunicativa dei gilets jaunes ci abbiamo pensiamo noi che li abbiamo subito fatti sfilare con le bandiere dei Cobas). Però dovrebbe essere chiaro che il lessico delle scuse da reality-show, con cui l’Eliseo si trasforma in un confessionale in stile Luigi XVI, non si confà neanche un po’ all’immagine del potere. Più che i messaggi alla nazione del Generale De Gaulle, Macron a reti unificate ha ricordato il video di scuse ai cinesi di Dolce & Gabbana (è mancato solo il passaggio “vogliamo anche chiedere scusa a tutti i francesi nel mondo, perché ce ne sono molti”). Certo, il loro resterà a lungo come un modello imbattibile, soprattutto per l’effetto sequestro-di-persona, coi due rapiti da qualche parte in medio oriente che lanciano un appello ai familiari affinché paghino il riscatto. Dolce & Gabbana se la giocano casomai con il video di scuse di Di Maio padre, capolavoro di sintesi tra il neorealismo involontario e “C’è posta per te”, ma che strizza l’occhio anche a “Natale in casa Cupiello” o alla lettera di “Totò e Peppino e la malafemmina”. “Sono molto emozionato, preferisco leggere una lettera”, dice Di Maio padre nel video realizzato nel suo ufficio, ripreso in tre quarti, con finti post-it alle pareti, magari con sopra i nomi degli operai da regolarizzare prossimamente. Con la voce un po’ strozzata, Antonio Di Maio non si affida al gobbo come Macron o Dolce & Gabbana ma imbraccia di suo pugno il testo, lo legge a testa bassa, perché l’onestà passa anche da qui. Fa tenerezza, il povero Antonio Di Maio, perché si vede che è finito in una cosa più grande di lui, che è stato obbligato a parlare in video come in una prova generale della recita di Natale dei dipendenti della Casaleggio Srl. “Quando ho visto mio padre che nel video si scusava per quanto fatto dieci anni fa”, ha detto Luigi Di Maio, “ho pensato che questo è il padre di un grillino” che ha poi subito rovesciato l’accusa verso “i padri degli altri” che invece non si sono scusati.

  

   

  

Perché c’è, naturalmente, anche un compiacimento narcisistico delle scuse, come ha mostrato Rocco Casalino ospitato da Fazio per spiegare agli italiani il contesto del video del 2004 in cui offendeva i disabili e rivisitava a suo modo la soluzione finale (“bisogna capire le complesse ragioni che hanno portato i tedeschi a incenerire gli ebrei”). Ci voleva in effetti tutto il palcoscenico della prima serata di RaiUno: “Dovevo interpretare un personaggio, mi era stato chiesto di provocare i ragazzi a fini didattici”. La scuola di teatro, poi un corso di giornalismo, forse il metodo Strasberg o Stanislavskij, ma che importa, quel che conta sono le scuse: “Faccio fatica a rivedermi in quel video, sono frasi indicibili e impensabili, un pugno nello stomaco, non ho problema a chiedere scusa a chi le ha ascoltate e si è sentito offeso”. Meglio a questo punto le scuse di Toninelli sul tunnel del Brennero: “Lavoro diciotto ore al giorno, chiedete a mia moglie”. Anche Roberto Fico va ai funerali delle vittime del crollo di Genova per “scusarsi a nome dello stato”, poi nell’anniversario di Piazza Fontana chiede “scusa per tutti i depistaggi dello stato”, poi ospite dalla Annunziata qualche giorno fa si scusa con i militanti del M5s e per come sono andate le cose con la Tap e il Terzo valico, “dobbiamo andare sui territori e chiedere scusa”.

   


  A un populismo che ha trovato un codice di rappresentazione d’impatto immediato, l’ufficialità del potere fatica a replicare con la stessa forza


  

Le scuse come strumento di gestione e controllo del consenso; le scuse come rito compensatorio dell’inazione politica; le scuse come risarcimento simbolico per ogni mancata assunzione di responsabilità. Come nella “concorrenza tra vittime” di cui parlava Hanna Arendt, esiste una “concorrenza tra le scuse”. La liturgia del perdono è forse un derivato di quella “tirannia della penitenza” che Pascal Bruckner aveva fissato in un bel saggio di qualche anno fa come vero, profondo tratto distintivo del tracollo della cultura occidentale (“il mondo intero ci odia e noi ce lo siamo meritato”). Con l’indebolimento delle istituzioni, degli stati, dei partiti, l’unico giudice spietato del nostro comportamento pubblico sono diventati gli altri, con tutte le forme di giudizio che hanno a disposizione, dai commenti alle stellette su Tripadvisor. Prima ci fu l’irruzione violenta delle lacrime (dalle lacrime di Occhetto alla Bolognina fino alle lacrime di Totti nell’addio all’Olimpico o di Obama alla Casa Bianca); segno di umanità, emotività, fragilità, le lacrime pubbliche ribaltavano l’immagine del potere e della forza; le lacrime pubbliche come segno supremo dell’abbattimento delle distanze e conseguente ingresso nel primato delle “emozioni”; anche i campioni crollano, anche i ricchi piangono, persino i comunisti. Toninelli se l’è giocate anche per la gaffe sul plastico del Ponte Morandi da Vespa: “Ho pianto per Genova e dal quattordici agosto ho lavorato costantemente, annullandomi. Se ho offeso qualcuno per alcune stupidaggini strumentalizzate, chiedo profondamente scusa”. Ma ormai le lacrime non bastano più. Troppo facile. Vogliamo che all’errore, alla figuraccia, alla gaffe o persino alla politica economica intrapresa dal governo, seguano le scuse, l’inginocchiamento pubblico, l’ammissione della colpa, l’espiazione. Poi, forse, il perdono.