La forza, la libertà, la vita sociale
Dalla tribù allo stato l'inevitabile ascesa del potere
Territorio, ricchezza, religione e ideologia le variabili fondamentali sulle quali nasce e si esercita. Le forme occulte e dissimulate. L’analisi di uno storico inglese e un richiamo del presidente Mattarella
Anatomia del potere? No, no, niente abusati cliché, parliamo invece della fisiologia del potere. Come ogni altro fenomeno, il potere interessa quando è vivo e in piena funzione, non se anatomizzato da inquisitorie e – perché no? – spesso invidiose dissezioni. E allora: “L’esercizio del potere può provocare il rischio di inebriare, di far perdere il senso del servizio e far acquisire il senso del dominio…”. Sembrerebbe massima dettata da un moralista romano classico, uno storico di età imperiale, un tacitiano sdegnato per quel che vedeva accadere tra le mura del Palazzo – gli attuali ruderi del Palatino – e che ci giunge ancora, riflesso nella leggenda del perverso Nerone chino a declamare sulle corde della lira i versi di Omero per Troia in fiamme mentre davanti ai suoi occhi Roma è devastata da un non meno spaventoso incendio, subito attribuito proprio a lui, all’ambizioso imperatore, alle sue manie di grandezza, alla sua follia di voler far sorgere sulle rovine fumanti una Roma tutta nuova, una capitale del mondo rivestita di esotici marmi preziosi, ancor più ricca di quella lasciata da Ottaviano Augusto. La supposta massima è invece una annotazione del mite presidente Mattarella, rivolto a un gruppo di studenti in visita al Colle. Forse non a caso, ogni tanto serpeggia la polemica sui poteri attribuiti alla massima carica dello stato.
Simon Heffer prende spunto da un sociologo tedesco, Franz Oppenheimer, secondo il quale il potere è attributo del solo stato
De Jouvenel e il percorso di “accrescimento del potere dalle sue origini nell’età moderna fino agli stati totalitari del XX secolo”
Ma cosa è il potere? Quando e come si mostra, questa che forse immaginiamo medusa dalle serpi avvinghiate sulla fronte e l’occhio di ghiaccio che paralizza? Un datato ma sempre valido ed utile Dizionario di politica Utet definisce il potere, in prima battuta e in un senso neutro e molto generale, come “la capacità o possibilità di operare, di produrre effetti”. Troppo poco, troppo generico ancor più che generale. Prova ad approfondire il tema il giornalista e storico inglese Simon Heffer, attualmente editorialista del quotidiano Daily Telegraph e columnist del Sunday Telegraph (“Una breve storia del potere”, Liberilibri, 2018). Heffer, ci sintetizza l’ottima introduzione di Lorenzo Castellani, distingue le diverse forme in cui è accertato che il potere si manifesta. In un “vasto affresco storico”, che “ricostruisce le dinamiche evolutive” del potere politico “a partire da quattro variabili fondamentali” universalmente accolte, “territorio, ricchezza, religione e ideologia”, l’autore prende lo spunto da un sociologo tedesco, Franz Oppenheimer, secondo il quale il potere è attributo dello stato, del solo stato, “istituzione sociale, imposta con la forza da un gruppo vittorioso di uomini su di un gruppo sconfitto, con il solo scopo di regolare il dominio del gruppo vittorioso sul gruppo sconfitto, e di assicurarsi contro la rivolta dall’interno e gli attacchi dall’esterno”. Definizione grossolana, ma ancora nel filone di una grande, secolare analisi politologica, via via sempre ribadita da autorevoli classici, per la quale la società umana, passando da condizioni barbariche – la tribù, il clan, l’orda – si è saldamente e definitivamente strutturata nell’entità somma e conclusiva dello stato, con le sue forme giuridicamente stabili e universali. La definizione ci è data come “realista”, in quanto richiamerebbe – assicura l’autore – “il problema della degenerazione delle democrazie in Stati totalitari così come messa a fuoco da Bertrand de Jouvenel”. Costui illustra “con chiarezza” il percorso di “accrescimento del potere dalle sue origini nell’età moderna fino agli stati totalitari del XX secolo”: “La democrazia, quando la penetrazione sociale dello stato è profonda, non è in grado di fornire alcuna garanzia di tutela delle libertà individuali”. Il richiamo non fa sconti o distinguo per legittimare la possibilità di qualche forma di “Welfare State” in una società liberale, fosse pure quella che vide la grande riforma sociale di Lord Beveridge, l’Inghilterra della ricostruzione postbellica. Come sappiamo, quell’Inghilterra era abbondantemente vaccinata per ricevere l’operazione senza far correre rischi al regime democratico, anzi – probabilmente – rafforzandolo e offrendolo come modello all’occidente democratico insidiato dalle tentazioni dell’egualitarismo socialcomunista, tranquillamente installatosi fra le democrazie vincitrici sui totalitarismi fascista e nazista (nessuno osò allora ricordare che fascismo, nazismo e comunismo avevano una comune matrice).
Per il sociologo, Hitler diede vita a un “antibolscevismo che sapesse decidere bolscevicamente”, ed è perciò che egli “fu spinto con molta più forza a imitare il nemico, anche nella propria azione, di quanto non fecero i primi antigiacobini. (…) Hitler è dunque definibile come il più giacobino di tutti gli antigiacobini”. Oppenheimer aggiunge una precisazione di grande valore: ciò accadde, in particolare, in momenti in cui tendevano a prevalere correnti di pensiero “legate alla tradizione del diritto positivo” secondo cui “tutto il diritto discendeva dall’autorità politica… per cui questa si trovava a essere allo stesso tempo formalmente vincolata al diritto che solo essa stessa creava. Un sofisma che si presta alla totalitarizzazione delle società, e alla degenerazione del potere, da relativo in assoluto”. La ferrea norma sarebbe in vigore anche nelle relazioni internazionali: il diritto è un abito tagliato sempre e solo sulle esigenze del vincitore. E, per Oppenheimer, perfino “l’ordine liberale su scala planetaria” si regge “sull’equilibrio di potere tra stati o imperi”: un discorso forse discutibile nella sua pretesa di dogmatica assolutezza, ma che si attaglia perfettamente alla situazione che sta vivendo il mondo contemporaneo, nel quale il potere, per affermarsi, cerca artatamente di sciorinare in bella vista più il diritto che la violenza. Il mito di stampo liberale, diffusissimo ed esemplare, che ribadisce il “rapporto speculare tra libertà economica e politica”, all’alba del XXI secolo sembra sul punto di cedere il passo ad altri, ben più infidi, equilibri.
L’ascesa dell’estremismo islamico ha reso di nuovo attuale la constatazione di Heffer, già presente peraltro nella Bibbia e nella tradizione giudaica ma poi respinta nella interpretazione fornita dalla Riforma, per la quale la guerra è lecita se è promossa dall’autorità costituita. L’autore si dedica quindi all’analisi di alcune fenomenologie del potere come sono apparse via via nella storia. Incontrovertibile, sicuramente, il primo punto fermo della ricerca: “In epoca pre-industriale, il potere era equiparato al possesso del territorio e della popolazione che ci viveva o a un monopolio commerciale di prodotti tropicali”. Ricordiamo, Incidentalmente: sul primo modello Gogol ha scritto, nel suo “Le anime morte”, pagine indimenticabili, mentre Venezia ci testimonia ancora, con il suo arcaico splendore, quanto possa essere stato efficace e produttivo il secondo. La spinta al possesso territoriale ebbe come portato la nascita e la lenta ma inarrestabile crescita delle nazioni, “una costruzione fisico politica” ma anche “ideologica” che per un lungo periodo, con le grandi conquiste coloniali, spostò il baricentro dei suoi interessi politico-economici fuori dall’Europa, espandendo il perimetro della “civiltà” sull’esotico “folklore”. Per annettersi sempre nuovi territori, base del potere, furono necessarie, in ogni tempo, guerre e conflitti, come egualmente dimostrano due esempi pur assai diversi tra loro, l’Impero romano e l’Impero mongolo. La violenza insomma fu strumento necessario per la vita dei popoli, sant’Agostino provò a definirne i confini entro i quali potesse essere considerata legittima. Altre motivazioni, di ordine culturale, sociale o psicologico sopraggiunsero poi a confortare e ribadire la validità (al di là dell’efficacia fattuale) della originaria, autoreferenziale, violenza conquistatrice.
Per Oppenheimer, perfino “l’ordine liberale su scala planetaria” si regge “sull’equilibrio di potere tra stati o imperi”
L’estremismo islamico ha reso di nuovo attuale la constatazione per la quale la guerra è lecita se è promossa dall’autorità costituita
Interessante – per noi – è la ricostruzione di Heffer dei meccanismi culturali ed etici messi in moto in ambiti cristiani per giustificare la guerra. “Molte delle guerre… hanno avuto una motivazione palesemente religiosa”, anche se “fino a non molto tempo fa questo era considerato un fenomeno premoderno” accantonato e reso desueto dall’affermarsi di società sempre più laicizzate (di cui, curiosamente e certo inconsapevolmente, si faceva interprete Benedetto XV, per il quale la Prima guerra mondiale era solo una “inutile strage”). Sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino ammettevano la guerra “giusta”, Papa Gregorio VII ne trovò in Anselmo da Lucca le premesse teoriche, fondate su una lettura dei Padri della chiesa. Come si vede anche da questi esempi, la casuistica ha profonde radici, un qualsiasi testo potrà essere letto per un verso come nel suo opposto: la storia di ogni tempo è piena di situazioni di questo genere. Del resto, chi ha mai visto una guerra indetta su motivazioni “ingiuste”? Il potere ha una sua irresistibile potenza plasmatrice, e se il detto per cui “la storia la scrivono i vincitori” è falso, mantiene purtuttavia una sua indiscutibile forza persuasiva. Nell’attuale situazione politica italiana quel detto, in barba alle minime regole della democrazia, viene abbattuto come una clava sulla minoranza perdente, pur in fiduciosa – anche quando vana – attesa del riscatto dell’alternanza. Il detto acquisisce ancor maggiore autorità se avvolto nel mantello della tesi vichiana della “Veritas filia temporis”, sublime espressione di un relativismo che diremmo, se non fosse un ossimoro, “assoluto”. E’ un detto che potremmo, alla buona, recitare anche in altra forma: “Oggi a me, domani (forse) a te”.
I “poteri forti”, spesso fantasmi immaginari che si invocano per giustificare una sconfitta, in campo politico o economico, dovuta a semplice incapacità
Abbiamo visto, sia pur sommariamente, quando e come il potere – secondo Heffer – trova le sue fondamenta nel territorio o nella religione (intesa nella sua fenomenologia mondana, che è altra dall’esperienza intima, spirituale o mistica, che pure ha le sue occasioni e i suoi promotori). Il terzo motore che genera il potere è – sostiene sempre il nostro autore – la ricchezza. “Fare denaro sfruttando le risorse umane, materiali e minerali di altre terre, o semplicemente arricchire prima una classe sociale specifica e poi una intera nazione, divenne una opzione importante per le nazioni che erano riuscite a rendersi stabili e quindi desideravano arricchirsi. La ricchezza era una cosa buona in sé ed era finalizzata al lusso, ma era anche di aiuto per pagare uomini e materiale bellico, che consentivano alla nazione di diventare una grande potenza. La creazione della ricchezza divenne anche un sottoprodotto della costruzione degli imperi sviluppatisi per ragioni di sicurezza territoriale, come nel caso dell’Impero persiano e romano e – grazie alla sicurezza garantita lungo la Via della seta – dell’Impero mongolo di Gengis Khan. L’espansione del potere non solo soggiogava i potenziali rivali, ma riempiva anche le camere del tesoro”. Anche “le società in cui la filantropia e il disinteresse sono (a volte) diventate dei valori, di solito sono state capaci solo di creare un clima in cui tale idealismo può fiorire come risultato della precedente fondazione del potere e, grazie ad esso, della sicurezza che consente la creazione di ricchezza”. Insomma, molte sono le forme in cui esso può manifestarsi, ma si tratta di forme illusorie e devianti che non possono sostituirsi alla sua specificità. Il potere è un fenomeno primario e, possiamo dire, autoreferenziale.
Il potere che seduce e la seduzione che è un potere: forse obliquo, perfino torbido, come quello che gli antichi attribuivano a Cleopatra
“La storia la scrivono i vincitori”: un detto falso che però oggi in Italia si abbatte come una clava sulla minoranza perdente
“Macbeth” drammatizza i catastrofici effetti fisici e psicologici dell’ambizione politica in coloro che cercano il potere
“Macbeth” (titolo completo “The Tragedy of Macbeth”) è una delle più note e citate opere del Bardo inglese. Essa drammatizza i catastrofici effetti fisici e psicologici dell’ambizione politica in coloro che cercano il potere. Nei secoli, Macbeth è divenuto l’archetipo per eccellenza della brama di potere sfrenata e rivolta solo all’interesse personale: l’esito di una tale condotta è un gorgo inesorabile di errori e orrori. Pubblicata nel 1623, probabilmente da un copione teatrale, variamente rappresentata e riadattata nel corso dei secoli, la tragedia, per la cui trama Shakespeare si ispirò liberamente al resoconto storico del re Macbeth di Scozia di Raphael Holinshed e a quello del filosofo scozzese Ettore Boezio, è spesso indicata dalla critica come il lavoro più complesso e sfaccettato del grande inglese, nella cui epoca la conquista del potere era del resto una brama ancora diffusa, arricchita dal ricordo di vicende di condottieri e spregiudicati politici, di cui l’Italia conobbe una ricca fioritura.
A differenza di allora, nel mondo d’oggi il potere – quando e dove c’è – cerca di non esibirsi, sgattaiola tra la folla rivestito di panni modesti. Naturalmente, non se ne può fare a meno, ma viene dissimulato o travestito. Per contrappasso, si fa un gran sussurrare sul tema dei cosiddetti “poteri forti”, cui sempre si allude per tentare di spiegare vicende aggrovigliate e un po’ misteriose di cui non si individuano i responsabili. A volte, codesti “poteri forti” nella realtà non esistono, sono fantasmi immaginari messi in scena per spiegare in modo romanzesco vicende per altri versi perfettamente normali, leggibilissime a un occhio sufficientemente raziocinante e minimamente smaliziato. In certi contesti, come quelli attuali, si invocano spesso avversi “poteri forti” per giustificare una sconfitta, in campo politico o anche economico, dovuta magari a una pura e semplice imperizia o incapacità che però per orgoglio non si vuole ammettere: si capisce, contro “poteri forti” l’uomo della strada, l’uomo comune, se non proprio “l’uomo massa” di certa sociologia di stampo americano, nulla può fare, ed è costretto ad arrendersi, a cedere il passo. Soprattutto perché questi “poteri forti” sono occulti e misteriosi, tutti si sentono in obbligo di citarli ma nessuno sa bene cosa siano, dove sia possibile scovarli per combatterli (e magari batterli). Una narrazione anche seria e oggettiva ha bisogno di bellurie e travestimenti, se non proprio di fake news, ormai strumento normale, quotidiano, per acquisire credibilità, se non altro la credibilità mediatica che sembra l’unica richiesta sul mercato – esattamente, mercato! – delle opinioni. Per dirla in altro modo, le fake news sono una forma attuale di quelle forze oscure che gli antichi, ma anche un Machiavelli, facevano interferire, in modo determinante, nelle vicende umane, rappresentandole con l’immagine di una donna – la Fortuna – con gli occhi bendati e in piedi su una ruota vorticante. La differenza con il Potere di cui qui si discetta è che l’antica Fortuna aveva gli occhi bendati mentre il Potere è, per definizione, “occhiuto”. Si infiltra dappertutto, per ascoltare, riferire, creare (ovviamente) fake news da scagliare contro l’avversario, meglio se davanti a un “tribunale del popolo” creato ad hoc con metodi giacobini, cioè per difendere – perbacco! – “la libertà”.
Spazio e tempo sono agli sgoccioli, qui non si può che appena accennare al noto fatto che il potere ha una sua seduzione, e che la seduzione stessa è un potere, forse obliquo e perfino torbido, come quello che gli antichi attribuivano a Cleopatra, colei che, dopo la mitica Didone della leggenda virgiliana, insidiò efficacemente la superba potenza di Roma. Nella storiografia romana, anzi, il cammino della città verso il dominio mondiale e l’Impero venne insidiato e messo in pericolo non tanto da un avversario in campo aperto, come poté essere Annibale, ma dalle insidie seduttrici di quelle due donne. Forse in queste vicende, reali o anche di immaginazione, si rifletteva il maschilismo di una società che non amava che la donna si mescolasse agli uomini – come invece era solito nella società etrusca – e e pose come esempi di donna da imitare la madre dei Gracchi o la moglie del dissoluto Cesare, colei che doveva essere per definizione al di sopra di ogni sospetto. Più o meno in tutte le religioni il potere della donna è legato alla continenza se non proprio alla verginità, anche se si conosceva benissimo, e si temeva, il potere di cui facevano sfoggio le lascive baccanti: il volto oscuro – e incontenibile – dell’irresistibile, fatale eros: “Squassa Eros – canta Saffo – l’animo mio, come il vento sui monti…”.