Louis C.K. non è cambiato, ed è l'unico sopravvissuto al tribunale del #MeToo
Perché cercare il consenso del pubblico è un esercizio inutile
Roma. Non sono riusciti a cambiarlo, e neanche a censurarlo, inibirlo, ammansirlo, zuccherarlo. Louis C.K. è incorreggibile. Di tutti gli imputati nel maxiprocesso contro le molestie e la sessualità tossica e il consenso entusiasta (cioè impossibile), lui è quello che meno si comporta da superstite: non ha permesso che niente di quello che è successo in questi mesi lo trasformasse in un pentito o in un penitente. E’ stato il solo a non scusarsi mai (lo ricorderete: cinque donne lo accusarono d’essersi masturbato davanti a loro senza chiedere posso?) e a dire, invece, che non si sarebbe perdonato niente e sarebbe rimasto zitto e “in ascolto” per capire come mai l’ammirazione di quelle donne per lui lo avesse spinto a credere che qualsiasi suo gesto, compresa una porcata, sarebbe risultato loro gradito.
Solo che neanche di questi mesi trascorsi ad ascoltare e mettersi in questione e riconoscere come, in lui, abbia agito il potere, C.K. l’incorreggibile porta il segno. Ed è una bellissima notizia che se siete ottimisti potete persino leggere come ottimo segnale di salubrità dell’anno nuovo. In alcune parti delle sue ultime apparizioni (sta tornando sul palco a piccole dosi) finite su YouTube, lo si sente dire cose molto cattive e spassose sui neri (non impara mai, accidenti, dopo che hanno provato a diseredarlo da tutto perché un decennio fa aveva detto “nigger”, parola in luogo della quale, negli Stati Uniti, si preferisce usare the n-word), sugli asiatici, sugli incasinatisessuali (cis, trans, omo, bis, tris), praticamente su tutti gli innominabili. Persino sugli adolescenti attivisti contro le armi di Parkland, dove a San Valentino dello scorso anno Nicolas Cruz uccise diciassette suoi ex compagni, entrando armato a scuola: “Non sei interessante perché sei andato in una scuola dove alcuni bambini hanno sparato. Non hai sparato tu, hai spinto fuori qualche ragazzino grasso e ora dovrei ascoltarti parlare?”.
Megan Garber ha scritto sull’Atlantic che si tratta di un tipo di umorismo così poco profondo da non essere neanche meritevole di critica ed esame, e che C.K. non è semplicemente rimasto dov’era: è regredito. Se prima, nella sua commedia che metteva in questione la cultura americana e il modo in cui lui stesso la incarnava, l’offesa aveva lo scopo preciso di creare un disagio, un disturbo nello spettatore, adesso l’offesa è così eccessiva da non aver alcun effetto e impiego se non retorico: ferisce e basta, è crudeltà pura.
In verità, C.K. non è regredito affatto e l’incrudelimento che denuncia Garber non è incrudelimento ma rifiuto dell’empatia. Per quale ragione dovrebbe salire sul palco ed essere più pacato, cercare il consenso del pubblico esprimendo quello che il pubblico già prova (la stima per un attivista, la pietà per un sopruso, la compassione per chi non sa decidere quale sesso portare tra le mutande)? Perché è stato un orco, un porco, e un balordo? Tornando sul palco come ci è sempre stato, o magari forse peggiorato, più cattivo, più stronzo – e incredibilmente più irresistibile – C.K. dà prova di alcune cose che, archiviate le smanie del #MeToo, dovremo affrontare da adulti. Primo, un comico è un attore: le sue colpe private non modificano i suoi copioni. Secondo, se il #MeToo è stato anche un ultimo tentativo di fare del politicamente corretto un tribunale, ha fallito. Terzo, ai comici che continuano a portare sul palco sgradevolezza e disturbo dobbiamo essere grati per la fiducia: ci ritengono ancora capaci di sopportare il fatto che il male è reale, non lo si espunge allisciandone il racconto, non lo si espunge mai, al massimo lo si esorcizza con una risata, e delle risate siamo ancora molto bisognosi, e complici.
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