La malattia dei giovani adulti americani è non sapere far altro che lavorare
Stiamo trascorrendo i migliori anni della nostra vita a fare in modo che arrivino o, peggio, a fingere che siano arrivati. Il futuro non è come quello promesso
Roma. I millennial sono molto malati. Hanno la sindrome di Burnout, l’esaurimento da lavoro, che è più o meno guaribile, a patto che si disponga del denaro sufficiente per pagarsi lo psicoterapeuta (l’analista è passé, ti costa una vita e dura altrettanto). Soprattutto, hanno l’età adulta (23 anni i più giovani, 39 i più vecchi), che invece è morbo non solo inguaribile, ma pure drammaticamente degenerativo. La notizia non è il Burnout, sia perché si parla da anni di come e quanto gravemente i millennial ne siano affetti, sia perché in molti hanno fatto notare spesso, anche di recente, come questa sindrome non sia nient’altro che un’intossicazione da capitalismo, che ha mietuto vittime tra le generazioni di più di mezzo secolo e chissà quante ancora ne mieterà. La notizia è che la fine della giovinezza dei millennial incrociandosi con il Burnout ha prodotto una reazione micidiale e paralizzante. “Quindi è così che finirà il mondo: non con un botto ma per via di un gruppo di millennial incapaci di spedire cose”, ha scritto su Twitter Matt Fuller, cronista politico dell’Huffington Post, quando il New York Magazine ha intervistato una dozzina di venticinque/ trentenni sulle elezioni di Midterm e alcuni di loro hanno detto che probabilmente non avrebbero votato perché registrarsi e mandare mail (non di lavoro) li agita e li stressa, ammesso che si ricordino di farlo, presi come sono da scadenze e incombenze (di lavoro). Ed è questo il punto: ora che sono diventati grandi e devono provvedere a loro stessi non solo studiando e costruendosi una carriera, ma pure andando al catasto, all’Inps, in lavanderia, dal notaio, dal dottore, non ne sono capaci. Non conta quanto sia nel suo interesse andare all’Inps, né che registrarsi per votare gli garantisca l’esercizio di un diritto: il millennial s’attiva solo per il lavoro. Il resto gli pesa al punto da annientarlo e immobilizzarlo. Dal tweet di Fuller è partita la lunga analisi di Anne Helen Petersen per BuzzFeed, “Come i millennial sono diventati la Burnout Generation”, che in questi giorni ha riacceso l’attenzione sulla relazione cannibale tra millennial e lavoro, tuttavia con le dovute cautele e/o prese di distanza – “può sembrare irrispettoso parlare dei problemi delle élite istruite, ma non lo è perché una società sana deve saper ottimizzare il talento e la competenza”, ha scritto Bloomberg; “Di Burnout soffriamo tutti, mica solo i millennial”, ha scritto Slate.
Secondo Petersen, che ha 38 anni, scrive in prima persona e si dice abbondantemente colpita dalla malattia del mi lavo domani, oggi devo lavorare, una delle ragioni principali per cui non riesce a occuparsi di nient’altro che non sia il suo lavoro sta nel fatto che la sua generazione non riesce ad accettare il tradimento (o il fallimento, è uguale) delle proprie aspettative, quindi continua a produrre in modo spasmodico, sperando che, prima o poi, il coronamento di tutti gli sforzi e di tutti i sacrifici arrivi. Stiamo trascorrendo i migliori anni della nostra vita a fare in modo che arrivino o, peggio, a fingere che siano arrivati. A questa recita siamo esortati dai social network, che utilizziamo sempre di più per raccontare e ostentare una vita che non abbiamo, e al cui centro piazziamo sempre un lavoro soddisfacente, brillante, divertente, cioè quello che ci hanno raccontato che avremmo avuto e che, invece, per la maggior parte di noi non è mai arrivato. E se uno è tanto impegnato a mentire, promuoversi, illudersi e, insieme, a dare il meglio sul lavoro, dove volete che trovi il tempo per andare a votare, portare il cane dal veterinario, fare la spesa, pagare l’assicurazione, fare sesso. La distinzione tra lavoro e vita s’è assottigliata fino a scomparire. Ne è risultato che il lavoro ha inghiottito la vita. Come abbiamo potuto non opporci, come possiamo non opporci? Perché, dice Petersen, fin da bambini siamo stati educati all’ottimizzazione di tutto: del gioco, delle amicizie, delle relazioni. Niente di quello in cui siamo stati cresciuti, a partire dagli anni Novanta in poi, ha portato il segno del disinteresse. Per questo, neanche ci rendiamo conto che la vita soccombe sotto il peso del lavoro. Non vediamo il confine tra le due cose, sebbene questa cecità ci faccia ammalare.
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