Cronaca da un futuro europeo senza più partigiani sovranisti
Anno 2029: il pragmatismo ha vinto sulle ideologie, i benefici sono evidenti. L'Unione europea ha trovato nuovi spazi d’azione
Akure, Nigeria, 7 gennaio 2029. Per Samuel, ventitreenne, e per la sua famiglia domani sarà un giorno speciale. Samuel sarà il primo della famiglia a laurearsi e, dopo due giorni, a volare in Europa. Grazie all’accordo sulla mobilità tra Unione europea e Nigeria, concluso nel 2025 in attuazione del Global Compact for Migration (in particolare, dell’obiettivo 18 sui c.d. global skills partnership), la sua laurea in Ingegneria ambientale è ormai riconosciuta in tutti i paesi europei. Quella laurea – conseguita presso la prestigiosa Università di tecnologia di Akure, finanziata dall’Unione europea e dall’Unione africana – consentirà a Samuel di andare a Helsinki per frequentare un corso di specializzazione in energie rinnovabili. Subito dopo, Samuel potrà lavorare in Germania, Olanda o Italia, i tre paesi che, in base al decreto flussi europeo che l’Unione ha introdotto nel 2023, hanno maggiori carenze professionali in quel settore.
La logica nazionalista della chiusura si è rivelata per quello che era: la sostanziale rinuncia a governare un fenomeno sociale ed economico rilevante, con inevitabile danno non solo per i migranti e i loro paesi di origine, ma per gli stessi paesi di destinazione. Una logica lose-lose
La storia di Samuel, con il suo carico di speranze e incertezze, dimostra che molto è cambiato dai tempi della grande crisi migratoria. Nel triennio della crisi (2014-2016) erano sbarcati in Europa, lungo le coste greche e italiane, un milione e mezzo di migranti: dai 50 mila sbarchi annui del periodo 2008-2013 si era passati a una media decuplicata, di 500 mila. Prima le “primavere arabe”, poi l’inasprirsi del conflitto siriano, il dilagare dell’Isis e il fallimento del processo di stabilizzazione in Libia avevano reso ancor più precarie le condizioni di vita in aree già povere, mettendo in fuga milioni di persone. L’immigrazione non autorizzata verso l’Europa era fuori controllo – o, meglio, fuori dal controllo dei governi. Approfittando del vuoto di potere in paesi chiave come la Libia, l’Isis e altre organizzazioni criminali erano riuscite a potenziare il traffico di esseri umani, ricavandone enormi guadagni, destinati ad alimentare guerre e terrorismo intorno al Mediterraneo.
A quella crisi – geopolitica prima che migratoria – i paesi europei reagirono in modo comprensibile ma miope, puntando tutto sul contenimento dei flussi. Prima, l’accordo con la Turchia del marzo 2016 bloccò nei campi di accoglienza e nelle città dell’Anatolia 3,5 milioni di profughi siriani. Poi, nel febbraio 2017, l’Italia concluse, con il plauso del Consiglio europeo, un accordo con Tripoli per delegare le operazioni di salvataggio nel Mediterraneo centrale alla Guardia costiera libica, così condannando i migranti soccorsi in mare al ritorno nei lager attorno a Tripoli. Quindi, nel 2018, la “fortificazione” delle frontiere meridionali dell’Europa fu completata con la decisione italiana di chiudere i porti alle ong e ostacolarne le attività di search and rescue per presunte connivenze con i trafficanti. I costi di quella politica, in termini di vite umane, furono elevatissimi. Nel quinquennio 2014-2018 scomparvero nel Mediterraneo 18 mila persone, con un tasso di mortalità via via crescente, proporzionale al disimpegno europeo nelle operazioni di salvataggio e funzionale alla cinica strategia di deterrenza perseguita. Eppure non fu quella ecatombe a segnare un’inversione di rotta nella politica migratoria europea e, probabilmente, nel destino dell’Ue.
Decisivo fu, piuttosto, il maturare nell’opinione pubblica europea di due consapevolezze. La prima è che le migrazioni dipendono da fattori strutturali, destinati a perdurare al di là delle contingenze politiche: il divario economico con l’Africa, dove il pil pro capite, di circa 2 mila dollari annui, è tredici volte inferiore a quello europeo; l’accresciuta consapevolezza di quel divario, dovuta alla diffusione di internet anche nelle regioni meno sviluppate; la riduzione dei costi dei trasporti, che ha reso realistica la prospettiva dell’emigrazione per i ceti medio-elevati dei paesi in via di sviluppo. La seconda riguarda il proposito di azzerare l’immigrazione, sbandierato dai governi nazional-populisti: un proposito non solo irrealistico, ma altresì contraddittorio rispetto all’obiettivo supremo di garantire la sicurezza interna. Cancellare con un tratto di penna le possibilità di ingresso e soggiorno legale degli extracomunitare significa cancellare non l’immigrazione nel suo complesso, ma soltanto la sua componente più virtuosa: l’immigrazione regolare. Si consideri, ad esempio, la soppressione della protezione umanitaria per i richiedenti asilo da parte del governo italiano dell’epoca. Quella decisione, compiuta con un decreto del 2018 dedicato appunto alla “sicurezza”, inevitabilmente finì per accrescere la clandestinità in Italia e i problemi di legalità ad essa connessi: maggiore il numero di migranti senza titolo (e senza possibilità effettive di rimpatrio), maggiore il numero di persone che, non potendo lavorare in modo legale, alimentano il mercato nero e i circuiti di criminalità.
Fortunatamente la lezione è servita e così, nel decennio successivo, il vento è cambiato. In gran parte d’Europa, governi di sinistra e di destra hanno gradualmente accantonato le opposte ideologie, di incondizionata apertura universalista e di ferrea chiusura nazionalista, e hanno imparato a resistere alla tentazione di misure simboliche dettate dalla ricerca di un consenso effimero. Elettorati più maturi e avvezzi al fenomeno hanno costretto quei governi a un approccio pragmatico, fondato sulla raccolta di dati, sulla loro analisi e sulla elaborazione di politiche pluriennali stabilmente orientate a ridurre i costi e massimizzare i benefici dell’immigrazione. La logica nazionalista della chiusura si è rivelata per quello che era: la sostanziale rinuncia a governare un fenomeno sociale ed economico rilevante, con inevitabile danno non solo per i migranti e i loro paesi di origine, ma per gli stessi paesi di destinazione. Una logica lose-lose.
Il suo tramonto ha aperto nuovi spazi di azione per l’Unione europea. Forte del sostegno di molti stati membri, la Commissione ha rilanciato la cooperazione internazionale e la partnership con i paesi di origine, promuovendo un approccio win-win, diretto a beneficiare tutti gli attori coinvolti: la vecchia Europa, interessata a una gestione ordinata e selettiva dei flussi in entrata, per colmare le lacune del suo mercato del lavoro e pagare le pensioni e i servizi sociali ai suoi cittadini non attivi senza compromettere la coesione e sicurezza interna; la giovane Africa, interessata a stabilizzare i suoi processi di sviluppo ancorandoli al mercato europeo e a formare in Europa la sua nuova classe dirigente; i migranti e le loro famiglie, interessati a processi migratori sicuri e prevedibili, a investire sulla formazione dei giovani e a non mettere le loro vite nelle mani dei trafficanti.
Domani Samuel si laureerà a pieni voti. Suo padre, morto esattamente dieci anni fa, il 7 gennaio 2019, a bordo di un barcone nel Mediterraneo, sarebbe stato fiero di lui.
Mario Savino è ordinario di Diritto amministrativo all'Università della Tuscia