Milano torna Gran Milan
Una mostra e una nuova narrazione: vuoi vedere che anche al cinema il primato è della capitale lombarda?
Una cosa, una sola cosa era rimasta a Roma nella lotta impari con la muscolosa Milano: er cinema. Ma adesso la capitale lombarda in piena autocelebrazione nel suo nuovo ruolo di locomotiva e trattore italiano, tra settimane del mobile e della moda, Triennali e saloni di qualunque dominio della scienza e della tecnica, vuole scalzare Roma anche da questo primato (tra un po’ cercheranno di portarsi pure il Papa, a Milano). Così, una mostra a palazzo Morando ripercorre e rivede la nuova narrazione meneghina insufflando anche il dubbio che, in fondo, il cinema in Italia sia nato proprio lassù, nelle nebbie. Rivendicazioni di primogenitura: foto e poster e documenti e filmati a testimoniare questa scomoda verità. Così, ecco nel 1909, a Turro, il più grande stabilimento e teatro di posa del mondo, area di ventiduemila metri quadri, copertura di ottanta metri per venticinque, e soffitto – oltraggio – comprato dalla stazione romana di Trastevere che in quell’anno si sta ristrutturando. Saltano fuori personalità, anche: imprenditore di primo piano dell’industria cinematografara milanese, cuore pulsante degli stabilimenti della Milano Films.
Si guarda al 1909 per una rivendicazione di primogenitura: foto e poster e documenti e filmati a testimoniare questa scomoda verità
Luca Comerio, un Lumière milanese, già fotografo della Real Casa che aveva fatto uno shooting fondamentale a Vittorio Emanuele III in crociera. Nato nel 1878, filma il primo giro d’Italia nel 1911; e i funerali del grande imprenditore dei magazzini Bocconi (siamo nell’empireo milanese). Il produttore milanese finisce però malissimo, pazzo, in manicomio, dopo esser fallito a causa di D’Annunzio che non rispetta i contratti.
Dagli anni Venti comincia invece (finalmente) la fortuna di Cinecittà: e Milano scompare dal grande schermo, con solo due puntate negli anni Trenta: il celeberrimo “Stramilano”, del 1929, regia di Corrado d’Errico, e tre anni dopo “Gli uomini che mascalzoni”, del (romano) Mario Camerini. In entrambi, si vanno delineando i topos della milanesità: la sacra triade vetrine-laghi-fiera campionaria; e poi tram, ciminiere, magli, ingranaggi, grisaglie, filatoi. Ma il decennio in cui nasce l’iconografia milanese “classica” è quello dei Cinquanta: decennio che si apre con “Miracolo a Milano” (1951) e si conclude con “Audace colpo dei soliti ignoti” (1959). Il primo impone subito la dicotomia centro pettinato - periferia paurosa e povera, che poi ricorrerà in tutti i film sul capoluogo lombardo. Lucia Bosè e Massimo Girotti vivono una tormentata storia tra i caldi palazzi del Centro e le baraccopoli gelide e grigie tipo “Lazzaro felice” (oggi i due piani si sono confusi con le riqualificazioni e rivalutazioni immobiliari: basta passeggiare ai piedi dei rinomati boschi verticali e delle piazze Gae Aulenti, tra la terra brulla e aspra e il sole nascosto dalle polveri sottili, e ci si sente subito baraccati, pur in zone di real estate molto affluente, ai piedi di Ferragni-Fedez).
La réclame, il boom economico e Carosello. Le tragedie degli anni Novanta. Infine si celebrano la moda e teenager molto musicali
Del 1953 è “Siamo tutti milanesi” di Mario Landi, ma è interessante soprattutto la figura di Dario Fo protagonista di “Lo svitato” (1955) di Mario Lizzani. Qui Fo è un po’ Fantozzi e un po’ Jerry Lewis (anche un po’ Mon Oncle), e si accompagna a una Franca Rame cotonata. Si sveglia il mattino al rumore di martelli pneumatici, in cantieri onnipresenti che distruggono e ricostruiscono, incessanti, la città, proprio come oggi. Abbattimenti, riqualificazioni, ripristini; muretti gru e fanciulle sorridenti che battono materassi. Fo dorme col cappotto per prendere il tram al volo al mattino, ma a differenza che nel romano Fantozzi qui il protagonista ha a che fare non con l’ostile ceto impiegatizio romano bensì con la collaborativa società civile milanese. “Lo aspetti, che se arriva in ritardo in ufficio e perde il posto a lei non importa eh?”, dice un passeggero all’autista indefesso che parte senza attenderlo, e quello risponde, urbanamente: “Eh ma io ho degli orari da seguire!” (e non, come a Roma, dove i bus oggi appongono la scritta: privatizza stocazzo). Poi continuando a correre Fo batte il tram in velocità, e arriva in ufficio prima degli altri. Il sottotesto premia la produttività.
Ma un film certamente seminale è “Susanna tutta panna”, regia di Steno (1957), pellicola delirante per trama – una giovane pasticciera milanese, Susanna, lavora nel laboratorio di dolci della sua famiglia e deve difendersi sia dal fidanzato geloso sia dalla concorrenza di altri pasticcieri che cercano di conoscere la ricetta della rinomata torta alla crema che porta lo stesso nome della giovane – ma utile per capire certe dinamiche milanesi. Intanto è presente il tema centrale della follia: il commendator Botta (che gioca con l’assonanza con Motta) è un industriale dolciario che “sta diventando matto” perché non riesce ad avere la ricetta di questa torta di panna. Non dorme la notte, col suo pigiama con la B ricamata sul taschino, e chiama la pasticciera – Anna Campori, in realtà attrice romana – che in una delle più belle telefonate della storia del cinema italiano gli dice “caro il mio sciur comendatur” che la ricetta non gliela dà, né a lui né ai suoi concorrenti.
Sono del resto gli anni del trionfo della merce milanese; della fiera campionaria che espone gigantografie di caffettiere, bottiglie di liquore, interi villaggi Galbani (come si vede in un’altra mostra milanese, in questi giorni alla Triennale). E il desiderio spasmodico della merce porta quasi sempre alla follia, a Milano: folle il commendator Botta, folle il cinematografaro della Milano Films; folle l’Alberto Sordi che qualche anno dopo tenterà di essere “Vedovo” della sua mogliettina all’ombra della Velasca; il film di Risi (1959) si apre con Sordi che va in cerca di prestiti in banca, reduce da un “brutto esaurimento”. Follia anche in un altro film degli anni Cinquanta, il classico “Totò Peppino e la malafemmina” (1956, regia di Camillo Mastrocinque), quello dei colbacchi, della lettera, e dei misunderstanding col vigile. Dopo gli equivoci linguistici, Totò e Peppino chiedono al ghisa: “Vogliamo sapere per andare dove dobbiamo andare, dove dobbiamo andare”, e quello gli risponde “se volete andare al manicomio vi accompagno io” (il manicomio insomma è l’ “ombra” psicanalitica dello stress milanese). Ma in “Susanna tutta panna”, oltre alla desiderabilità della torta, metonimia della desiderabilità della ragazza (Marisa Allasio), sono presenti alcune figure classiche della commedia milanese: soprattutto la sciura padruna, aggressiva, energica, lavoro-guadagno-pago-pretendo, che maltratta i maschi di casa che sono per di più meridionali: al lavorante fidanzato della figlia: “E’ questa l’ora di tubare con il negozio pieno di gente? Andes! Terun!” (notare che il commesso terùn tormenta di gelosia la già emancipata pasticciera milanese). “E’ mica l’ora di fare il bamba! Qui siamo a Milano, qui non si dorme mica! Qui la vita è attiva!”. (La donna milanese sarà sempre così, al cinema, ma forse anche nella vita, volitiva, indipendente, ha un gran successo sul lavoro, lo sconta talvolta accompagnandosi a un marito “terun” o, peggio ancora romano, come nel “Vedovo”, forse cercandovi un po’ di umanità, forse pagando un contrappasso per i successi commerciali/industriali).
Con “Stramilano” e “Gli uomini che mascalzoni” si delineano i topos della milanesità: la sacra triade vetrine-laghi-fiera campionaria
“Susanna tutta panna” – il titolo verrà poi usato dalla Invernizzi dieci anni dopo per un formaggino e un pupazzetto che trionferanno in Carosello, invenzione cui i milanesi tengono moltissimo – è poi il film sulla pubblicità, è il “Mad men” milanese. Si apre infatti con un carrello sullo skyline con le insegne di piazza del Duomo, e la voce fuori campo che irretisce: “Questa è Milano di notte. I grattacieli non stanno mica solo a Londra o a New York”, e poi si entra in camera del commendator Botta che non dorme per la sua torta.
Nel frattempo Milano, che non era riuscita ad avere il cinema, si rifaceva con la réclame. Ecco che a Cologno Monzese, sui terreni di quella che poi diventerà Mediaset, diventa floridissima una Gamma Film che insieme ad altri studios produce cartoon celeberrimi – Calimero, l’Omino coi Baffi, Capitan Trinchetto, la Linea (quello della Lagostina, con la voce che era di Carlo Bonomi, storico speaker della stazione Centrale), per lanciare i prodotti di largo consumo che da Milano conquisteranno l’Italia e il mondo. E lì, solite dinamiche Milano-Roma: il Carosello è in gran parte prodotto al Nord, ma i permessi e la censura passano per Roma (le regole erano severissime: ogni puntata era composta di quattro caroselli della durata di 135 secondi ciascuno, con un carosello di 105 secondi e un “codino” pubblicitario di 30, in cui il prodotto reclamizzato non poteva essere nominato più di 4 volte; regole fatte apposta, pareva, per imbrigliare gli animal spirits milanesi).
Il clash Milano-Roma scoppia poi alla fine dei Cinquanta col boom: arriva il “Vedovo” (1959, curiosamente non presente qui in mostra) con la sua torre Velasca e il progetto di un romano di ammazzare la moglie milanese (regia di un milanese trapiantato a Roma, già psichiatra). Arriva anche l’alienazione e l’incomunicabilità. I “terun” arrivano sempre più frequenti alla stazione centrale in convogli faticosi, non con metropolitane d’Italia. Rocco e i suoi fratelli (1960) non viaggiano in ambiente smart. Del ‘62 è lo spleen milanese molto cool di “Una storia milanese” di Eriprando Visconti, nipote del regista di Rocco, però qui con una gioventù tutta diversa, che sembra quella che oggi affolla le librerie eleganti (con costumi della Biki). “La notte” di Antonioni (1961) si apre coi titoli di testa su una discesa in ascensore dal Pirellone che riflette i grattacieli milanesi. E se in “Ieri oggi domani” (1963) la lotta di classe è rappresentata da una gigantesca Rolls su cui la Loren scorrazza Mastroianni intellettuale povero, l’emblema del progresso (e del suo simmetrico, lo straniamento), è sempre il grattacielo, con “La vita agra” di Carlo Lizzani (1964) e Tognazzi alle prese col logorio della vita moderna (“Io ero venuto a Milano per questo: per far saltare in aria la torre Galfa”. “Vi siete mai chiesti quanto tritolo ci vorrebbe per farlo saltare questo grattacielo? Io sì”). Tognazzi dice anche che “farlo saltare in aria è una bella libidine”, plagiato dunque poi da Jerry Calà e dai compari che dal Derby di via Monterosa daranno l’assalto al cinema degli Ottanta – i Settanta sono abbastanza irrecuperabili, ci sono solo poliziotteschi nebbiosi con gli inseguimenti in Alfetta e cinema d’amore e fabbrica (“La classe operaia va in paradiso”, “Romanzo popolare”).
La mostra dedica invece giusto spazio al Derby e al suo ruolo fondamentale nel riflusso e prima: a Pozzetto, cui è dedicata una sezione (giustamente: “Ragazzo di campagna”, 1984, è ancora un riferimento anche urbanistico sul tema centro-periferia, “Un povero ricco” è la “Poltrona per due” milanese); e poi Jannacci, Boldi, Teocoli, Abatantuono (con la saga del “terrunciello”, il meridionale radicalizzato, oggi sarebbe un influencer a sciabolare champagne in corso Como). Tutti scoperti da dei romani – ma di famiglia lombarda – come i fratelli Vanzina, che imporranno anche la milanesità anni Ottanta con la trilogia meneghina: “Sotto il vestito niente” (1985), “Yuppies” (1986), “Via Montenapoleone” (1987).
Dario Fo che nello “Svitato” batte il tram in velocità, e arriva in ufficio prima degli altri. “Susanna tutta panna” e la merce milanese
I Novanta per Milano sono una tragedia: c’è Tangentopoli, finisce il craxismo, Raul Gardini si suicida a palazzo Belgioioso, Versace finisce sparato a Miami. La narrazione meneghina soffre, non ci sono ancora i Cracco e le Ferragni e i Pisapia a rilanciare le sorti della ex capitale morale, generalmente considerata urfida.
Roma invece tira e si prepara al Giubileo. Ecco così la filmografia della fuga (da Milano): Soldini fa la sua “Aria serena dell’ovest” (1990), Salvatores ricicla e nobilita Abatantuono con giacche di velluto a coste e silenzi, e lo infila nelle sue gite fuori porta (“Marrakech Express”, 1989, “Turné” 1990, “Mediterraneo”, 1991).
Nei Duemila lentamente Milano torna cool: arrivano l’Expo e l’albero della vita, villa Necchi donata al Fai e ristrutturata diventa palcoscenico del regista delle nuove lombarditudini internazionali, Luca Guadagnino. Il climate change che sgombra un po’ la nebbia e alza le temperature fa il resto (talvolta non basta, servono i direttori della fotografia tailandesi a mettere l’anti-grigio nei cieli lombardi). Però oggi sempre a villa Necchi, mentre Milano ormai assurge in ogni classifica (persino, provocatoriamente, in quella della vivibilità), si gira una serie che celebra gli anni della moda (“Made in Italy”, con abiti e ricostruzioni filologiche, andrà su Canale 5), mentre su Rai 1 vanno in scena teenager milanesi molto musicali che agognano la Scala (“La compagnia del Cigno”, di Ivan Cotroneo). A Roma, invece, solo baby prostitute annoiate ai Parioli con l’unico sogno della citycar. O ragazzini neorealisti che si fanno molte canne riflettendo sulla propria sessualità (Skam Italia). La sciura pasticciera li prenderebbe tutti per un orecchio: è mica l’ora di fare i bamba!
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