Demografia: un declino che la politica non governa. Anzi
Sempre più vecchi, sempre meno figli: l’Italia fanalino di coda nella Ue. Perché populismo e sovranismo, con contorno di xenofobia e pregiudizi razziali, rappresentano la risposta più catastrofica al futuro demografico dell’Europa
Demograficamente parlando l’Europa che si avvia alle elezioni di primavera non è a due bensì a tre velocità, nessuna delle quali si può considerare adeguata ma, al più, appena sufficiente. Ci sono pochi paesi, tutti dell’Europa continentale e del nord – in quest’ordine di classifica, Francia, Svezia, Irlanda, Regno Unito (dove non si voterà, ma che non per questo uscirà geopoliticamente dall’Europa) e Danimarca – con valori del tasso di fecondità, numero medio di figli per donna, compresi tra 1,8 e 1,9. Più nutrito il gruppo che sta in coda, con valori di 1,3-1,4, figli per donna che comprende pressoché tutti i paesi mediterranei, vale a dire, partendo dal fondo, nell’ordine, Italia, Spagna, Portogallo, Cipro, Malta e Grecia e, sole eccezioni alla mediterraneità, in parte la Croazia e pienamente la Polonia e il Lussemburgo. Al centro della graduatoria, tra i migliori e i peggiori, con valori di 1,4-1,6 figli per donna, tutti gli altri, la metà dei paesi dell’Ue, tra i quali la Germania, risalita prepotentemente da 1,3 a 1,6 a forza di iniezioni di immigrati ben più giovani dei tedeschi, e tutti i paesi dell’est, più vicini al limite inferiore che a quello superiore dell’intervallo. Complessivamente in Europa il tasso di fecondità è di 1,6, ch’è tale salvo modestissime oscillazioni da una dozzina d’anni a questa parte.
L’Italia, da sola, 13. Il fattore che più ha contribuito a tenere l’Europa sulla linea di galleggiamento, il movimento migratorio, incontra ormai forti resistenze nei governi e nelle opinioni pubbliche di molti paesi
Tra la Francia, la prima, e l’Italia, l’ultima della graduatoria, c’è una distanza di 0,6 figli in media per donna. Non sembra un gran cosa ma, tradotta e permanendo inalterata, vuol dire che i 13 milioni di donne italiane in età feconda avranno concepito alla fine della loro vita fertile qualcosa come 8 milioni di bambini in meno di 13 milioni di donne francesi in età fertile. L’Italia detiene i valori più critici di tutti i parametri demografici che contano, tra cui l’indice di vecchiaia, è dunque il paese destinato al più rapido e forte declino in campo europeo. In un contesto in cui, secondo le previsioni della Population Division dell’Onu, l’Europa è destinata a non accusare, da qui alla metà del secolo, un calo vistoso della sua popolazione, che passerà dagli attuali 512 a 500 milioni (Inghilterra inclusa), l’Italia ne perderà 4. Niente di tragico. Ma il peggio arriverà dopo, varcata la metà del secolo. Sempre secondo la Population Division, l’Europa, considerando anche la Russia, perderà 90 milioni di abitanti entro la fine del secolo. L’Italia, da sola, 13. Tutte stime da prendere con le molle sia in quanto troppo lontane nel tempo, sia perché viziate da un certo ottimismo previsionale di partenza, sia, soprattutto, perché il fattore che più ha contribuito a tenere l’Europa sulla linea di galleggiamento, vale a dire il movimento migratorio, incontra ormai forti resistenze nei governi e nelle opinioni pubbliche di molti paesi, massimamente in quelli che fanno parte del patto di Visegrad (Polonia Ungheria, Cechia e Slovacchia) e dell’Europa dell’est, che pure di movimenti di migranti in entrata ne hanno visti pochi – e quei pochi quasi sempre male accolti o respinti –, ma ormai anche in quelli mediterranei, a cominciare dall’Italia, più toccati dai flussi dei migranti provenienti da quella autentica bomba demografica che è l’Africa. Ma l’insofferenza potrebbe dilagare ben oltre, come del resto si comincia a intravvedere, anche sulla scia di movimenti politici e partiti populisti e sovranisti che contestano l’Europa e pretendono una linea dura per limitare al minimo sbarchi, flussi, immigrati, e che potrebbero ottenere un risultato elettorale capace di scombinare quell’equilibrio faticoso ma decisivo che ha portato non solo alla tenuta numerica della popolazione europea ma anche a quella di parametri, a cominciare dall’invecchiamento, altrimenti ben più compromessi e forieri di disastri futuri.
In questo quadro previsionale c’è peraltro da sottolineare il fatto che se l’Europa nel suo complesso non perderà entro il 2050 che una decina di milioni di abitanti, pari al 2 per cento della sua consistenza demografica, da soli i paesi dell’Est Europa ne perderanno nello stesso lasso di tempo 17, pari al 16 per cento in meno dei loro poco più di 100 milioni attuali, diventando la regione del mondo più depressa, demograficamente parlando. Ci sarebbe naturalmente da chiedersi com’è che, pur avendo mediamente un tasso di fecondità attorno a 1,5, facciano così peggio dei paesi mediterranei il cui tasso di fecondità si situa a metà tra 1,3 e 1,4. La risposta risiede nel movimento migratorio: i paesi dell’Europa dell’est sono destinati ad avvitarsi come aerei in caduta libera, cosa che già hanno cominciato a fare, perché la loro mediocre fecondità non è corretta da alcunché, non dai flussi di migranti, non voluti e del resto piuttosto restii a fermarsi da quelle parti, vista la non propriamente brillante situazione economica. E’ dunque bene ricordarlo: i paesi mediterranei, tra i quali spicca l’Italia, hanno retto meglio per quell’unica ragione: gli immigrati. Vanno regolati i flussi migratori? Non c’è alcun dubbio. Ma senza di essi l’Italia, che già è la ruota di scorta del carro della demografia mondiale, può appendere il cartello “chiusa per fallimento”, con buona pace di Salvini che i più figli che necessitano li vuole far fare alle donne italiane: bel proposito, peccato che le donne italiane in età di fare figli non facciano che diminuire per le minori nascite del periodo 1975-1995.
Lasciando da parte le previsioni e tornando con l’occhio all’oggi, un elemento su tutti è degno di nota, vale a dire che nell’ultima dozzina d’anni l’Ue ha perso 14 milioni di abitanti pur se il tasso di fecondità è aumentato leggermente da 1,54 a 1,6 figli per donna e in presenza di un movimento migratorio fortemente attivo. Com’è che i presupposti per un miglioramento della bilancia demografica non hanno funzionato e sono riusciti soltanto a frenare lo smottamento della popolazione? L’Europa paga fortemente la contrazione della proporzione delle donne di 14-49 anni sul totale delle donne, conseguenza per un lato delle minori nascite del passato e per l’altro dei processi di invecchiamento specialmente femminili. Quella contrazione, che nell’ultimo decennio ha fatto sì che la proporzione delle donne in età fertile scendesse dal 49 a meno del 45 per cento del totale delle donne, ha significato un potenziale di fecondità (e dunque di nascite) che s’è ridotto di quasi il dieci per cento. In altre parole, anche soltanto per reggere i volumi delle nascite di dieci anni fa, l’Europa avrebbe dovuto aumentare il tasso di fecondità da 1,6 a 1,75, mentre invece la fecondità è rimasta invariata. Cosicché un numero decrescente di donne in età feconda sta realizzando un numero di nascite a sua volta progressivamente decrescente: erano 5 milioni e 411 mila nel 2010, sono state 5.059 mila nel 2017, con un tasso di natalità che si è ridotto da 10,7 a 9,9 nati annui ogni mille abitanti.
La sfida per l’Europa che si avvia alle elezioni sta nel riuscire a rendere l’individualismo più capace di arrivare alla realizzazione di sé in tempi accorciati rispetto a quelli odierni, così che possa volgersi anche al matrimonio, alla famiglia e ai figli
Che cosa ci dicono tutti questi dati? Ben cinque cose di fondo. Intanto che i paesi che hanno retto meglio alla denatalità del continente e che hanno oggi una demografia meno preoccupante sono giusto quelli dell’Europa occidentale, continentale e del nord, che hanno adottato politiche espressamente nataliste, un mix di provvidenze, misure e servizi per famiglie con figli, già da alcuni decenni. Poi, seconda cosa, che quelle politiche hanno dato quel che potevano dare, e oggi mostrano di avere almeno in parte esaurito la spinta innovativa degli inizi. Terza, che laddove queste politiche non ci sono state che molto parzialmente (come in Italia) o non hanno funzionato come ci si aspettava (come in Germania) sono stati i contingenti di immigrati a vivacizzare una demografia altrimenti morente. Quarta, che senza quei contingenti, che hanno dato un forte contributo alle nascite e ringiovanito la popolazione, nessuna politica natalista sarebbe stata di per sé minimamente sufficiente. Quinta, che rispetto ai rischi, demografici sociali e viene da dire antropologici in senso pieno che corrono società che invecchiano facendo sempre meno figli, occorre ormai pensare di andare bene al di là delle tradizionali politiche nataliste.
In tutto il continente la riduzione della proporzione della popolazione delle età fertili – segnatamente della popolazione femminile, la più decisiva in questo senso – pone una grossa e grave ipoteca sul suo futuro. L’Europa è come una grande auto pesante con un motore scadente, inadeguato, non più adatto a sostenerla. Quel motore, rappresentato dalle donne in età feconda, andrebbe potenziato ma per farlo non basta cominciare a fare più figli oggi perché quei figli in più diventeranno fertili, e dunque capaci di generare figli a loro volta, tra una ventina di anni; dunque quale che sia la cura che si prospetta essa comincerà a potenziare il motore, ammesso che funzioni, tra un paio di decenni, non oggi, non nell’immediato, quando pure servirebbe. Così l’intenzione salviniana di far fare più figli alle donne italiane appare a un tempo ingenua, alla luce del fatto che in Italia la proporzione di donne in età feconda non è bassa, è bassissima, arrivando a malapena al 41 per cento, vale a dire un buon venti per cento in meno di quel che dovrebbe essere – cosicché le italiane dovrebbero passare da 1,3 a 1,6 figli per donna unicamente per reggere nel tempo il mediocrissimo livello attuale delle nascite –, e propagandistica, se si pensa che Salvini si è naturalmente ben guardato anche soltanto dall’abbozzare le linee di una politica che possa sia pur lontanamente dirsi natalista.
Occorrerà allora, e non solo in Italia, sia chiaro, ma anche in quella parte d’Europa che se la passa meglio sotto questo aspetto, perché neppure là le cose potranno reggere indefinitamente coi valori dei parametri demografici attuali, cercare di invertire la rotta partendo da due presupposti: il primo, le tradizionali politiche nataliste non basteranno più, continueranno a essere importanti ma non basteranno affatto a mantenere l’Europa in una condizione demograficamente vitale; il secondo, i flussi migratori in entrata non potranno rappresentare ciò che hanno rappresentato nei trascorsi 25-30 anni, perché il livello di saturazione si sta avvicinando e con esso le capacità di accettazione/integrazione degli immigrati da parte di governi e opinioni pubbliche, e di ciò occorre avere piena coscienza se non si vuole consegnare l’Europa ai movimenti xenofobi, sovranisti o populisti che siano.
Per evitare i rischi di decadenza che si stagliano contro lo sfondo di un domani ch’è già alle porte, sapendo che non si può pensare di agire sulle due leve che fin qui hanno evitato il peggio – le politiche nataliste e i flussi migratori in entrata – occorre dunque aprire un capitolo del tutto nuovo partendo dalla considerazione che quella europea è una grande società verticale incardinata ormai più sull’individuo e l’individualismo liberale competitivo che non sulla famiglia e le sue logiche comunitarie. Una società siffatta non comporta necessariamente la fine della famiglia e dei figli e il conseguente tramonto demografico. A patto però che una grande politica, portata avanti da forze politiche lungimiranti e aperte, sappia coraggiosamente percorrere tre linee programmatiche tanto semplici da enucleare quanto complicate da realizzare:
• Accorciare tutti i percorsi educativi e professionali di studio
• Strutturare un mercato del lavoro aperto, decisamente indirizzato ai giovani, chiaro e oggettivo a cominciare dalle condizioni di accesso
• Ripensare a fondo i meccanismi di un ascensore sociale che, troppo lento e zavorrato da criteri che non sono il merito e la voglia di fare, impedisce le speranze anziché farle lievitare.
Occorre, in altre parole, che la propensione dell’individuo europeo d’oggi a realizzarsi senza necessariamente passare attraverso la famiglia e i figli sia stimolata a mettersi alla prova e possa raggiungere i suoi traguardi in tempi che non siano tali da precludere, o comunque da condizionare pesantemente, ogni altra prospettiva. La sfida che si prospetta davanti all’Europa che si avvia alle elezioni sta nel riuscire a canalizzare l’individualismo, nel renderlo meno nevrotico e entropico, più capace di arrivare alla realizzazione di sé in tempi accorciati rispetto a quelli odierni, così che possa volgersi anche al matrimonio, alla famiglia e ai figli. Oggi famiglia e figli non sono più punti di partenza ma di arrivo, e se lo sguardo dell’individuo si volge in quella direzione solo quando ha superato largamente i trent’anni, come succede, magari in prossimità dei quaranta, la partita del futuro è bell’e persa.
C’è in Europa anche soltanto la percezione di quello che l’aspetta se non si muove presto e con decisione in questa prospettiva? No, non c’è. Le politiche anti immigrati e sovraniste sono state più o meno contrastate non per il loro contenuto demografico, per le ricadute demografiche capaci di affrettare il declino dell’Europa, ma sotto l’aspetto etico-morale, o per i riflessi nel campo economico-produttivo. Cosicché nessuna vera linea innovativa in campo demografico è rintracciabile negli indirizzi degli stessi partiti progressisti e filoeuropei. Una indubbia prova della non eccelsa capacità delle forze progressiste ed europeiste di prefigurare gli scenari e le prospettive future dell’Europa e del mondo e di influenzarli. Ancora più grave se si pensa che populismo e sovranismo, con contorno di xenofobia e pregiudizi razziali, rappresentano la risposta più catastrofica possibile al futuro demografico dell’Europa, che sotto la loro guida, dati i presupposti politico-culturali da cui muovono, si inabisserebbe veloce come un Titanic nelle acque del nulla.