Il pugile suonato. Fabrizio Corona e la prigione di un personaggio tragico
Il suo libro “Non mi avete fatto niente” è anche un testo sorprendente. I meriti non sono strettamente letterari, ma risiedono nell’incrocio tra realtà e rappresentazione
Milano. Agosto 2010. Le dieci di sera. “Volete sapere quanto ci impiegano quattro sacchi di plastica strapieni di contanti a svuotarsi su un divano? Al massimo 16 secondi. Sono lucido, ho tutto chiaro in testa. Sono io il padrone di tutto quello che succederà. Non sbaglierò una mossa. E anche se quello che sto per raccontare potrà sembrare azzardato, sappiate una cosa: io ho ragione”.
Il contenuto dei sacchi? Un milione e settecentomila euro. Il tempo che ci vuole per contare tutto quel denaro? Due ore e mezza, se si è in due. Ma il punto è che non ci troviamo in una serie tv, e i due che stanno contando i soldi non sono attori. Sono Fabrizio Corona e Francesca Persi. Coi soldi andrà a finire com’è noto, murati nel controsoffitto di casa della fidata collaboratrice, e con le vicende giudiziarie anche: per Corona, sei carcerazioni. I casini cominciarono già nel 2002, pochi giorni dopo la nascita del figlio, poi nel 2007 scoppiò il caso Vallettopoli e partì la valanga. Così, alla fin fine, la sua è una storia dalla trama tutto sommato lineare, di quelle chiare dal principio, una storia destinata alla ripetizione di se stessa, un blues che sragiona, e forse i guai non finiranno mai davvero se, dopo anni di galera, esci con un blocco d’insonnia, uno spartito di farmaci, una diagnosi di ego-narcisismo con sindrome abbandonica, una dipendenza già patologica dal denaro e nemmeno un’idea su come sciogliere il nodo indistricabile tra te e il tuo personaggio.
Fabrizio Corona sarà per sempre il destino di Fabrizio Corona? “La solitudine è la mia famiglia”, dice. “Io ho una sorta di magnetismo che nessuno può capire e riesco a far crollare le donne”, dice. “Volevo che la mia uscita dal carcere fosse trionfale,” dice. Vien da chiedersi, fuori da ogni schizzinoso apriorismo, cosa ne farebbe oggi un Balzac. Vien da chiedersi cosa ne tirerebbe fuori un Maupassant, che sarebbe di certo incuriosito dall’eccesso plateale del personaggio e dall’incandescenza dei demoni che vomita, dall’evidente terrore che ha di non essere nessuno e dalla sua urgenza di infelicità, da quella grandezza triste e volgare di cui è prima vittima e dal vittimismo che ci ritorce contro in forma narcisistica.
Ma Fabrizio Corona non è in cerca d’autore, e il libro se l’è scritto da solo, si intitola “Non mi avete fatto niente” (Mondadori). A tratti vanagloriosa requisitoria, a tratti delirio monomaniacale, è anche un testo sorprendente. I meriti non sono strettamente letterari, ma risiedono nell’incrocio tra realtà e rappresentazione, perché alla fine ciò che rende Fabrizio Corona un personaggio tragico è la sua vanità: è morto mille volte, e mille volte rinato, ma sempre secondo presupposti immutabili. Corona non cambia, è protagonista di un film che nessuno vede eccetto lui, sempre al disperato inseguimento di se stesso e delle proprie versioni, così finisce per assomigliarsi e lasciare che l’autorappresentazione prenda il sopravvento, masochisticamente devoto alla vertigine che lo tiene in vita togliendogliene un po’. Corona si offre sempre all’ordalia e mai ne esce emendato. Corona è uno che ha dedicato a suo figlio la vittoria di una pena dimezzata della Corte d’appello di Milano. Uno che salta attraverso il cerchio di fuoco e il fuoco lo brucia mille volte, lui si ritrova sempre più strinato e vinto eppure fa finta di niente, tira dritto, sbraita ed è sempre Corona, irritante, puerile, sincero come un dispetto e straripante di una spavalderia mai del tutto pesta. Ricorda quei pugili che non riescono a far pace con il tempo che passa e si offrono a match rispetto ai quali sono sempre meno all’altezza, andando incontro al rischio-distruzione non si sa se in cerca della presunta antica grandezza o di una definitiva lezione; e proprio come un pugile suonato, ecco che perde un dente in una trasmissione tv.
Corona nemmeno sa di essere emblema di tutto questo, non lo immagina, e per questa ragione è ancora più emblematicamente tragico: nella recita della sua consapevolezza strazia l’ignarità. “Dei potenti non me ne frega niente!”, ha strillato una volta a Ilary Blasi, e mentre strillava lo vedevi che ci credeva, credeva al ruolo che si era ritagliato. Lui, che una volta ha affermato di “non essere pulito”, da innamorato lo diventa: il libro è zeppo di autentiche dichiarazioni d’amore per Belén – per la precisione quattordici, più un capitolo interamente dedicato. “Io e lei”, scrive, “come Bonnie e Clyde abbiamo fatto la storia”.
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