A forza di rieducazioni forzate gli uomini non vogliono più lavorare con le donne
Quel momento del post-#MeToo alla fine è arrivato: anche chi non vuole molestare ha paura di essere accusato di averlo fatto
Roma. Dal World Economic Forum di Davos arrivano cronache di conversazioni tra uomini che, non avendo ben chiaro come non irritare/ferire/molestare/traumatizzare una donna, confessano di evitare, per quel che possono, di lavorarci insieme. E di aziende che, conseguentemente, cercano di limitare la collaborazione tra dipendenti maschi e femmine che abbiano ruoli diversi e, quindi, diverso potere. Rispetto a un dirigente, un’impiegata è ricattabile: se prima del #MeToo c’era chi ne ne approfittava, adesso succede che anche chi non intende approfittarne ha paura di essere accusato di averlo fatto.
Ne risente soprattutto la formazione interna all’azienda. Se le posizioni apicali sono occupate in maggioranza da uomini, e quegli uomini si rendono indisponibili ad affiancare le donne, il gap non solo non si sana, ma s’allarga. E’ uno degli effetti indesiderati e paradossali di un movimento che, invece, ha tentato (anche) di ridurre la vulnerabilità femminile sul posto di lavoro (e non solo, naturalmente). Il New York Times riporta alcuni dati di una ricerca del portale Lean In dalla quale già lo scorso febbraio emergeva che la metà dei dirigenti maschi si sentiva a disagio a collaborare con le colleghe, il 30 per cento preferiva non lavorare da solo con una donna – su un campione di 9 mila lavoratori dipendenti, un uomo su sei si mostrava riluttante all’idea di affiancare una donna. Fino a due anni fa le ricerche rivelavano, invece, che le donne spesso mal tolleravano la presenza maschile sul posto di lavoro, e in certi casi ne erano disturbate tanto da temere che la propria professionalità potesse esserne compromessa.
La soluzione di cui si discuteva era assai simile a quella che, adesso, propongono i consulenti aziendali, le associazioni e le compagnie che studiano il modo migliore per agevolare la parità tra i sessi sul posto di lavoro e la creazione di ambienti professionali tanto salutari e armoniosi quanto fruttosi: correggere il maschio. Con un’aggiunta: visto che colpevolizzarlo a priori e farlo assistere per mesi a decapitazioni sommarie l’hanno convinto che, senza troppo sforzo, anche la sua vicina di casa potrebbe trasformarlo in uno stupratore seriale indirizzando qualche insinuazione sul suo conto a un hashtag, è necessario tranquillizzarlo. Come? “Offrendogli spazi sicuri in cui esprimersi e dire cosa lo confonde”, ha detto Marc Pritchard della Procter & Gamble al New York Times, aggiungendo che la creazione di questi spazi di ascolto e confronto dev’essere parallela alla condanna ferma delle distorsioni della mascolinità tossica, condanna che a sua volta deve andare di pari passo con l’impegno personale, di ciascun uomo, a sentirsi responsabile dei propri colleghi (ma sarà come la delazione grillina per il reddito di cittadinanza? Chissà!).
Le donne non sono esonerate da questo impegnativo processo per la messa in sicurezza del posto di lavoro, naturalmente: a loro tocca, “prima di offendersi, insegnare a un collega cosa le mette a disagio” (parola di Shelley Zalis di Female Quotient, una società attiva nel “workplace equality”). Prima di prendere a sberle il vicecapo che vi schiocca le dita sul culo, ragazze, spiegategli che non siete sul set di “Mad Men” e che quello che ha fatto “ha disturbato la vostra sensibilità”.
Vista dall’Italia, dove il maschio di potere terrorizzato dalla femmina a lui sottoposta è ancora una barzelletta, la questione sembra, se non lunare, grottesca. Eppure, i numeri che vengono dalle grandi aziende e agenzie finanziarie statunitensi sono inequivocabili: più discutibile, invece, è che i signori si siano scoperti tanto traumatizzati dal #MeToo da rifiutarsi di fare un colloquio a una ragazza. Forse, semplicemente, hanno capito come usare a loro vantaggio l’arma della suscettibilità. Prepariamoci a un pianeta di Jimmy Bennett.