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Attenti, l'algoritmo di Netflix sta uccidendo la libertà d'espressione

Claudio Cerasa

La rivoluzione di Netflix è aver scoperto una formula per dare agli spettatori solo quello che si aspettano di trovare, solo ciò che è “condivisibile”. La dittatura pol. corr. è una minaccia per la libertà (anche in streaming)

Che cosa sta succedendo alla libertà d’espressione? La risposta è in sette lettere: Netflix. Il problema è in una parola: algoritmi. Nel dibattito pubblico legato all’evoluzione dei contenuti cinematografici il tema “Netflix” di solito viene affrontato per aprire discussioni molto appassionate sul giusto rapporto che deve esistere nel mercato tra il cinema classico e le piattaforme di streaming. All’ultimo Festival di Cannes, lo ricorderete, Netflix ha fatto parlare di sé perché il direttore del festival scelse di negare alla società guidata da Reed Hastings la partecipazione al concorso in quanto la sua società di distribuzione in streaming non porta i propri film in sala e punta unicamente sull’online. All’ultimo Festival del Cinema di Venezia, Netflix ha fatto parlare di sé perché il direttore del festival ha preso una decisione diversa rispetto a quella di Cannes facendo partecipare anche Netflix, con un film che ha appena ricevuto dieci candidature agli Oscar: “Roma”, di Alfonso Cuarón, e decidendo di dare spazio al film italiano “Sulla mia pelle”, distribuito poi in contemporanea sia su Netflix sia nelle sale (per la prima volta in Italia, con il film su Cucchi, non è stata rispettata la prassi che prevede una finestra di 105 giorni tra l’uscita al cinema e la distribuzione su un altro media). 

  


La questione non riguarda solo la censura di un paese ma riguarda una predisposizione naturale di Netflix a offrire ai suoi 139 milioni di utenti per lo più prodotti condivisibili non scorretti, non provocatori, e se vi capiterà di scorrere con il vostro cursore sulla libreria di Netflix non sarà difficile per voi rispondere a una domanda semplice: ma il politicamente corretto di Netflix sta contribuendo o no a uccidere la libertà d’espressione nel mondo del cinema?


 

Quando si parla di Netflix, e del suo impatto avuto sul mercato cinematografico, si parla soprattutto di questo e si parla di quanto sia vero o di quanto sia falso che la crisi delle sale cinematografiche italiane sia legata anche all’esplosione delle piattaforme online – a ottobre del 2018, subito dopo il Festival di Venezia, gli esercenti cinematografici italiani hanno deciso di chiudere l’accesso alle sale a Netflix contestando alla società americana di avere un modello di business costruito per uccidere le sale cinematografiche: “In attesa di nuove regole, le nostre sale non proietteranno film in contemporanea con Netflix”. Concentrarsi però su questo punto un po’ ridicolo rischia di farci perdere di vista un elemento cruciale e non sufficientemente indagato della rivoluzione di Netflix, e che si lega direttamente a un grande tema sollevato questa settimana sulla copertina del settimanale francese L’Obs e raccontato sul Foglio da Giulio Meotti. Il tema è stato declinato da uno dei penalisti più famosi di Francia, Eric Dupond-Moretti, grosso modo con queste parole: “L’igienismo è diventato un progetto sociale e la nostra società è diventata ipermoralizzatrice, iperigienista, ipertrasparente anche quando parliamo di cinema e di comicità”. Il tema sollevato dall’Obs è centrale per capire un lato oscuro della rivoluzione di Netflix, che coincide forse con il suo vero punto di forza: non solo aver trovato un nuovo canale per distribuire contenuti di successo ma aver trovato una formula magica per dare agli spettatori solo quello che si aspettano di trovare, solo ciò che permetta loro di non uscire dalla propria bolla, solo ciò che non sia divisivo, solo ciò che non faccia irritare, solo ciò che non provochi nessuno, solo ciò che possa essere considerato come universalmente accettabile dagli algoritmi di Netflix. Gli algoritmi di Netflix, per chi non lo sapesse, funzionano su due livelli diversi. Un primo livello è quello che permette agli abbonati di avere una serie di consigli su serie tv o film da guardare e i consigli vengono elaborati sulla base di una raccolta di dati che mescola alcuni fattori: le interazioni con il servizio (attività di visione e valutazioni di altri titoli), le ricerche fatte da altri abbonati con preferenze simili alle nostre, la presenza di un genere, di una categoria, di un attore che ha già riscontrato il nostro interesse, il tipo di dispositivo da cui ti sei connesso. Un secondo livello invece riguarda un’analisi delle abitudini e dei comportamenti più raffinata che riguarda non l’offerta di serie tv o film ma direttamente la loro produzione. Cary Joji Fukunaga, che per Netflix ha diretto la serie “Maniac”, ha spiegato qualche mese fa a GQ America quali sono i criteri con cui Netflix costruisce un prodotto: “Sono una data company e sulla base della mia esperienza posso dire che sanno esattamente come gli spettatori guardano le cose. Quindi possono guardare la tua sceneggiatura e dirti: sappiamo che se girerai questa scena, perderemo tot spettatori in quel momento. Fa effetto. Non è come dire: abbiamo opinioni diverse, discutiamone e vediamo chi ha ragione. L’algoritmo ha sempre ragione, alla fine”.

 

Molti giornali americani hanno scritto che il confronto tra la cultura dei dati e la cultura del prodotto è l’essenza dello scontro che esiste all’interno di Netflix tra l’anima di Hollywood e l’anima della Silicon Valley. Ma in realtà è possibile che ci sia qualcosa di più e il dibattito sulla difficoltà incontrata da Netflix di scommettere con convinzione sulla libertà d’espressione è stato messo a fuoco bene qualche settimana fa dal New York Times in un editoriale molto critico scritto da Ursula Lindsey, una giornalista specializzata in temi culturali legati al mondo arabo. Il New York Times ha raccontato come Netflix in Arabia Saudita abbia rimosso dal suo catalogo su specifica richiesta del regime saudita un episodio di “Patriot Act”, uno show del comico statunitense Hasan Minhaj, e in particolare un episodio in cui Minhaj criticava il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman per l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. La questione naturalmente non riguarda solo la censura di un paese ma riguarda una predisposizione naturale di Netflix a offrire ai suoi 139 milioni di utenti per lo più prodotti condivisibili non scorretti, non provocatori, a eccezion fatta forse per lo splendido “Bojack Horseman”, la serie animata di Netflix con protagonista un cavallo alcolizzato, ex celebrità televisiva, alle prese con problemi affettivi, e se vi capiterà di scorrere con il vostro cursore sulla libreria di Netflix non sarà difficile per voi rispondere a una domanda semplice: ma il politicamente corretto di Netflix sta contribuendo o no a uccidere la libertà d’espressione nel mondo del cinema? Prima ancora di occuparsi dei problemi delle sale cinematografiche forse varrebbe la pena farsi due domande su quali sono i veri guai generati in tv, e nelle nostre teste, dalla rivoluzione degli algoritmi. Non è certo Netflix che uccide il cinema, questo è ovvio, ma la cultura dell’algoritmo che Netflix promuove forse sì.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.