Milano, hai rotto!
La città modello: pulita, organizzata, incravattata. L’unica capace, si dice, di salvare il paese dall’inferno dell’arretratezza. Ma è una retorica che ha stancato, quasi come quella del degrado di Roma. Provocazione
Milano è seppellita sotto uno strato spesso del migliore top coat in circolazione. Il top coat, per chi non si facesse la manicure, serve a rendere più brillante lo smalto e a evitare che si smangiucchi. E’ trasparente ma ha un odore che crea dipendenza, di fiori talmente dolci che sanno un po’ di marcio. Se non lo metti sopra allo smalto, anche se resti immobile, dopo un’ora il colore si scheggia. Risultato: sembri più sciatta di prima, e disperata. A Milano succederebbe questo se smettesse di ricoprirsi di top coat. Sembrerebbe sciatta. E disperata. La magia del top coat svanirebbe e lo skyline tornerebbe a essere il ricordo di uno skyline, il Bosco Verticale un palazzotto con le piante sopra, la Biblioteca degli Alberi solo un’idea scema.
Nebbia, fumi e nebulose. E’ questa l’atmosfera di cui ha bisogno per camuffarsi meglio. Senza il suo top coat sembrerebbe sciatta
Nebbia, fumi e nebulose. E’ questa l’atmosfera propria di Milano, quella di cui ha bisogno per camuffarsi meglio. Ed è questa l’atmosfera consigliata per fare un tour della città. Il tour non può iniziare se non sei munito del kit giusto. Un asciugamano, una tuta, e le sneakers. Una volta che ti sei infilato le sneakers che portano tutti a Milano, quelle colorate, almeno sei tinte insieme, magari anche con del pelo fluo sopra, si può partire. Per vedere Milano devi quasi correre, altrimenti resterai deluso: mantenere un ritmo costante di dieci chilometri orari se scegli i piedi, venti per la bici. A Roma quelli che corrono e quelli che si muovono in bici sono trattati come cittadini di serie B, meritano di cadere a testa in giù sui cumuli d’immondizia ai lati delle strade o di essere schizzati quando le macchine passano sulle pozzanghere. Nella Capitale vince la lentezza estrema, sia a piedi, ti fermi a ogni passo, troppa bellezza e troppo orrore per mantenere un’andatura costante; sia con i mezzi, sei obbligato, vanno piano, sbuffano, bucano; sia in macchina, anche qui, per forza, ci sono le file, le clacsonate, le parolacce da dirsi a ogni semaforo. Dopo un’oretta a passo svelto in giro per Milano c’è bisogno di una pausa caffè – caffè al cocco per sentirsi un po’ esotici e scacciare le nebulose. Ovviamente da Starbucks. A Parigi, unica capitale europea degna di un confronto con Roma anche se millesettecento anni in meno si sentono, Starbucks è vuoto, in quasi tutti i quartieri. “Qui andava di moda dieci anni fa”, dice il ragazzo al bancone mentre si gira i pollici. Milano cerca di stare al passo con i tempi ma risulta comunque indietro se paragonata ad altre città, più a nord di lei. Ma non è solo Starbucks il problema. E’ il modo che hanno i milanesi di chiedere un caffè. “Macchiato freddo in tazza calda”. “No, avevo chiesto macchiato. Freddo. In. Tazza. Calda. Me lo rifà? Gentilmente”. Gentilmente. Se alle sette di mattina parlate con le persone in questo modo – a quell’ora il caffè dovrebbe essere una questione di sopravvivenza – vuol dire che avete carenze d’affetto o che siete milanesi. “Famme ’n caffè”. Titoli di coda. La brevità è una caratteristica sofisticata ed è tutta romana. L’osso. I milanesi aumentano anche la lunghezza dei nomi propri mettendo davanti gli articoli, hanno bisogno di fare scena, di coprire la loro assenza di ciccia. La Clarissa. Il Federico. Il Gianni. A Roma semo pigri, nel parlà tojemo er più possibile, fosse pe noi useremmo solo tre vocali: oh, ah, eh. Per non sprecare fiato (sapete, fa caldo) ci si chiama con i diminutivi. Cì, ao, frà, zì. Anche l’intercalare per eccellenza – daje – fra le righe vuol dire taglia corto. Si può ammirare la differenza fonetica totale con quello milanese: Tac, che può prendere una quantità infinita di a, Taaaaaaac. E’ brutto, te fa pizzico ar naso. Da una parte la rotondità arabeggiante che ti avvolge in una nuvola di beatitudine, dall’altra unghie che grattano sulla lavagna.
Il presente e il futuro. E’ la Capitale l’emblema della modernità, perché lo può guardare da fuori, questo tempo, e sbuffargli in faccia
Negli ultimi anni la trasformazione del capoluogo lombardo, che a detta dei più l’ha avvicinata alle altre capitali europee, sembra essere l’unica benedizione che salva il paese dall’inferno dell’arretratezza. Sono puliti. Sono fit. Sono incravattati. Milano è il modello da guardare, sostenere, imitare. Che il resto dell’Italia, soprattutto il sud, si specchi, vergognandosi anche un po’ delle sue brutture. Questa retorica ha rotto quasi come la retorica del degrado che affligge Roma più della stessa immondizia per strada. Dai titoloni ai talk, da Roma fa schifo con i suoi non so quanti follower alle copertine sul New York Times – si sono stancati di parlare dei loro topi e della loro immondizia e sono passati ai sorci e alla monnezza romana, ma un appartamento a Brooklyn è dotato di romantica scala di sicurezza, letto che diventa tavolo-scrivania-aggregatore sociale, un topo e dieci scarafaggi. Certo, molti aspetti romani sono poco logici, per questo ce ne preoccupiamo, la sottoponiamo a revisione, cerchiamo di definire la sua relazione con il resto del paese, annunciamo a gran voce le nostre partenze, ma la verità è che Roma è diversa da Milano ed è bello (anche giusto) così.
Roma, come tutto il sud, dalla sua ha il sole, vive a panza all’aria, anche quando ci si lamenta lo si fa per sgranchire la mascella, per non scordarsi il suono di certe parole, per non far seccare la bocca. I motivi sono perlopiù fisiologici. Non si tratta di “lamentela deresponsabilizzante”. Nessuno psicologismo. Dopo due minuti ci si scorda quello che si era detto e si riprende a mangiare o a passeggiare o a contemplare un capitello. Niente è fondamentale, niente è davvero importante a Roma, ne ha passate troppe. Milano vs Roma, Nord vs Sud, angeli vs demoni. Registi, cantanti, youtuber, hanno trattato questa rivalità in tutti i modi possibili, mettendo in mezzo stereotipi, miti e leggende. Ma la parte più violenta l’ha sempre recitata Milano: la parte normalizzatrice, che non tollera lo sporco, il disordine, la disorganizzazione, la mollezza, la pigrizia, la troppa simpatia, la sbracataggine, il sabato.
Un caffè al cocco, per sentirsi un po’ esotici. Ovviamente da Starbucks (anche se a Parigi non va più). La sofisticata brevità romana
Il motivo principale parrebbe essere il pil. I soldi che ci devono dare, gli aiuti che inviano in questa parte buia del mondo, in questa zona dimenticata dai lumi della ragione. Poi ci sono tutti i motivi a corollario tipo l’immagine, il decoro, il “non sta bene”. Il più filosofico è “sprecate le vostre potenzialità”. Vivaddio. “Bisogna sfruttare tutte le potenzialità che ha Roma” sembra un po’ “è intelligente ma non si applica”, la frase più insulsa pronunciata dagli insegnanti di tutto il mondo. Beh. Intanto non vi conviene, se Roma mettesse a frutto tutte le sue potenzialità Milano diventerebbe immediatamente Busto Arsizio e nessuno ci metterebbe più piede nemmeno con le sneakers colorate, nemmeno per un tour. Adesso uno ci passa due notti volentieri perché la metro arriva subito, si può fare “business” in qualche “hub”, ci sono nuove costruzioni da osservare, davanti alle quali farsi domande sugli angoli storti e l’estro degli architetti ma non scappa nemmeno un sospiro per sbaglio. Anche se forse i milanesi sospirano per cose diverse. Per la spiegazione pedissequa di un piatto al ristorante, per esempio. Lasciamo perdere le centrifughe di zenzero e avocado. Roma si può permettere anche gli avocado-bar, sotto al sole può venirti voglia di addentare perfino un misero avocado-toast. Nell’immensa varietà, fra una gricia e una coratella, ci sta. A Milano no. Mangiare avocado nella nebbia diventa una presa in giro, ti deprime più di quanto tu non lo sia già. Oltre alle materie prime sempre più svilite a causa delle composizioni infichettite fino all’inverosimile, rese complesse a tutti i costi, c’è la spiegazione nei minimi dettagli da parte del cameriere, talmente tanti dettagli su dove hanno preso quel pomodorino giallo che se ne sta lì mezzo ammosciato sul piatto vuoto, che si fredda tutto e ti passa la fame. Nebbia, fuffa nebulosa, orecchie piene e panza vuota, un modo di fare cibo che può piacere ai semplici.
Niente è davvero importante a Roma. La parte normalizzatrice è sempre stata di Milano, che non tollera la pigrizia, la troppa simpatia
Anche i tassisti milanesi so’ prolissi, a Milano si fa cultura pure sui taxi, urca. Dopo un po’ di storielle su come hanno riqualificato i Navigli rimpiangi i tassinari zotici romani che ti trattano male o ti strombazzano quando passi urlando “abbona”. Almeno li puoi mandare affanculo. A Milano no. “Signorina. Non mi ha risposto. La nebbia. Le chiedevo se le piace la nebbia. Può rispondere cortesemente?”. Cortesemente. Nessuno può tollerare di essere così gentile di rimando continuando a dire “Davvero? Mamma mia. Interessante”, ma davanti ai sorrisi, alla formalità e a tutto questo impegno non si riesce a fare altro. Si soccombe. Il sindaco di Milano di qualche anno fa, guardando le rovine – c’è pure un interruttore per illuminarle, la sera – che si vedono dalla stanza del sindaco di Roma di qualche anno fa, si dichiarò colpito dalla sindrome di Stendhal. Il sindaco di Roma rispose, un po’ per diplomazia un po’ per convinzione: voi avete i milanesi. Ok, non sporcano, sono ecocompatibili, hanno senso civico e tutte quelle menate lì ma sono gli stessi che, dall’alto delle loro potenzialità tutte sfruttate, dicono di amare Roma ma non ci vivrei – “Come ci fai a vivere?!?” e di seguito una delle infinite possibili banalità che si dicono quando non puoi proprio ammettere che quella cosa, in fondo, ti piacerebbe. Tipo “E’ troppo rilassata”. Come se rilassatezza equivalesse a morte.
Ma la differenza principale fra Roma e Milano, più che la dimensione spaziale (ovvio Roma è immensa, Milano è un paesotto di provincia a confronto) è quella temporale. Sono le categorie ontologiche a essere opposte. Roma è sempre, un circolo, sfondo perfetto per l’arte, di ogni genere – dai film alle serie tv alla musica, la scena musicale del momento è Roma: forza Achille Lauro, Noyz Narcos, Carl Brave, Franco 126, ma pure tutti quei soggettoni indie. Milano è progresso segnato, posticcio, linea dritta da elettroencefalogramma piatto. Non esiste se non nel futuro, un futuro promesso, già deciso. Per Roma la convivenza con il presente non è una cosa facile, lo scansa, gli sfugge, gli fa le pernacchie. Sta bene nella polvere, fra le cose che non si possono cambiare. Non sta bene nel presente, figurarsi nel futuro – a Roma non esiste. Che Roma sia morta non è una notizia, da mo’ che è strippata. Il disamore nei suoi confronti è comprensibile, a tratti, anche quello dei romani che so’ abituati alle sue puzze e alle sue mollezze: il morto è un oggetto d’amore esigente, non dà nulla, non vuole nulla. Ma qualche volta si stiracchia, cambia posizione, fa capolino, dice delle cose pure lei. Sempre le stesse, nei secoli. Ortega y Gasset diceva che quando, agli inizi dell’Impero, qualche provinciale di mente fine arrivava a Roma (con “provinciale di mente fine” si riferiva a Lucano e Seneca) e vedeva le costruzioni imperiali, simbolo di un potere definitivo, gli si stringeva il cuore. Ormai nulla poteva accadere al mondo, Roma era eterna. E, se ora c’è una malinconia delle rovine (ora, ieri e sempre), il provinciale sensibile percepiva allora una malinconia non meno penosa, sebbene di significato diverso: la malinconia degli edifici eterni. I turisti dovrebbero prendersi una vacanza dall’efficienza delle loro vite e venire a godersi non la strada perfettamente spazzata ma proprio questa morta dai muri sfragnati. Farsi un giro fra le pietre giganti che traballano, le tombe dipinte con le bombolette spray, le veneri decapitate. Un giro con il naso all’insù, sperando che Roma gli parli. Appare all’improvviso, preferibilmente di notte, scricchiola e manda segnali, a volte balbetta cose incomprensibili. Roma ormai parla poco pure ai romani. Chiacchiera molto coi sorci, i gabbiani, i piccioni, i tori bianchi. Roma non si adegua a questo tempo, non si sforza di essere alla moda, per questo nessuno potrà mai dire che è passata di moda. E’ Roma, non Milano, l’emblema della modernità. Perché lo può guardare da fuori, questo tempo, e sbuffargli in faccia.
Sei arrivato alla fine del tour. Non molti ci riescono. Congratulazioni. Se il tuo Fitbit si è sciolto hai appena fatto circa trentaquattromila passi. L’unica cosa che resta da fare è bere un termos di caffè al cocco. O accendersi una ciospa al contrario.
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