Delle case di tolleranza bisogna parlare, senza ideologie
Oggi la Consulta decide sulla Legge Merlin (di nuovo). La frammentazione del mercato del sesso e le politiche sociali
Oggi la Corte Costituzionale è chiamata a decidere sulla costituzionalità di alcune disposizioni della legge n. 75 del 20 febbraio 1958, nota come Legge Merlin, dal nome della senatrice socialista che tenacemente e appassionatamente si batté per la sua approvazione.
La questione posta alla Consulta nasce da un ramo, tra i mille, dell’infinita vicenda giudiziaria che ha avuto come protagonista e imputato Silvio Berlusconi.
La Corte d’Appello di Bari, giudicando due imputati per aver introdotto alcune escort nelle residenze del leader di Forza Italia, ha sollevato eccezione di costituzionalità a proposito della configurazione quale illecito penale del reclutamento e favoreggiamento della prostituzione. Ad avviso dei giudici, un simile reato contrasterebbe con il principio della “libertà di autodeterminazione sessuale, qualificabile come diritto inviolabile della persona umana”; libertà di autodeterminazione che – sostengono i giudici – “potrebbe esprimersi anche nella scelta di offrire prestazioni sessuali verso corrispettivo”. Come si vede, dunque, in gioco è esclusivamente lo scambio sessuale remunerato tra adulti consenzienti, conseguenza di una scelta che si presuppone libera. Restano escluse da una simile valutazione tutte le forme di prostituzione – la gran parte – imposte attraverso la coercizione. La problematica non è certo nuova, pure se oggi si presenta non solo nella sua formula antica, ma anche con modalità in tutto o in parte inedite. La chiusura dei bordelli fu, all’epoca, un evento lacerante: creò nel nostro paese rocciosi schieramenti in conflitto tra loro e un dibattito pubblico che, partendo dal giudizio controverso sulla natura della prostituzione, metteva in discussione sia le strategie più adeguate per affrontare il fenomeno, sia le sensibilità individuali e le concezioni fondanti l’idea di Stato, diritto, legge e autodeterminazione della persona.
Sullo sfondo, la delicatissima questione del rapporto tra morale individuale ed etica pubblica. Basti riflettere su quanto in proposito affermò Benedetto Croce, contrario, insieme al Partito Liberale, al senso e alla finalità di quella proposta legislativa: “Eliminando le case chiuse non si distruggerebbe il male che rappresentano, ma si distruggerebbe il bene con il quale è contenuto, accerchiato e attenuato quel male”. Un approccio realistico e, nello stesso tempo, nutrito di un’idea profondamente laica dello Stato, ma che pure conosce una declinazione teologica nella dottrina cattolica del “male minore”. All’opposto, l’ispirazione della senatrice Merlin e dello schieramento che la sosteneva – socialisti, comunisti, repubblicani, democristiani e alcuni socialdemocratici (sia pure con numerosi dissensi individuali) – nasceva dalla combinazione di più fattori. In primo luogo, la volontà di tutelare la donna-prostituta e offrirle una via di emancipazione, sottraendola a un regime (quello delle case di tolleranza) che ne limitava la libertà e ne perpetuava la condizione di subalternità all’uomo-cliente. Inoltre, il riconoscimento alle istituzioni di un ruolo pedagogico-disciplinare, da esercitarsi per sviluppare la “coscienza sessuale del cittadino” dissuadendo i giovani dall’“affollare i vicoli della suburra in attesa del loro turno dietro la porta del lupanare”. Infine, il progetto di legge della senatrice nasceva all’interno del movimento per l’emancipazione femminile, nella prospettiva di un superamento della condizione di disparità di genere in tutti gli ambiti della società, relazioni private comprese. Una prospettiva che obbligava ad affrontare anche quel particolare meccanismo della sudditanza femminile rappresentato dal mercato del sesso.
L’iter parlamentare durò ben dieci anni. La legge, oltre ad abrogare la regolamentazione della prostituzione, introdusse una serie di reati destinati a contrastarne lo sfruttamento. Viceversa, chiudendo le case di tolleranza, restava non punibile l’esercizio della prostituzione, ma sul punto la normativa presentava più di un aspetto contraddittorio.
Già nel 1964 la Consulta fu chiamata più volte a valutare dubbi di costituzionalità sulla nuova legislazione, respingendoli tutti come infondati. Oggi, al di là del quesito posto alla Corte costituzionale e delle conseguenze normative che potranno derivare dalla sua decisione, è l’intera questione della prostituzione che risulta particolarmente impervia, nel momento in cui alcune forze politiche (Lega e Radicali italiani) ripropongono progetti di legalizzazione e di diversa regolamentazione del fenomeno, così profondamente mutato nel corso dei decenni.
Tale trasformazione si deve, in primo luogo, a una ragione sociologica: la sua articolazione in numerosi sotto-mercati.
Infatti, l’idea che la prostituzione sia espressione di una scelta libera, consapevole e attuata da una donna adulta, deve misurarsi con l’irresistibile diffondersi di un mercato del sesso esercitato da persone sottoposte a rapimento, tratta e costrette in un regime di vera e propria schiavitù sessuale. È in questo segmento del fenomeno che s’incontra una quota crescente di minori. E, d’altra parte, sono aumentate le quote di prostituzione maschile e transessuale.
Dunque, è davvero un gravissimo errore pensare di poter affrontare il fenomeno nel suo insieme ricorrendo a un’unica strategia. Chi, come me, resta convinto della fondatezza dell’opinione di Benedetto Croce e di quella allora espressa dal parlamentare socialista Gaetano Pieraccini (la clandestinità della prostituzione non risolve il problema e può portare all’aumento dello stesso sfruttamento), sa bene che non esiste alcuna ricetta miracolosa. E bisogna tener conto del rischio segnalato dalla sociologa Tamar Pitch, quando scrive: “Ciò che si vuole eliminare è la visibilità della prostituzione, ossia la prostituzione di strada, certo in nome della salvezza delle prostitute stesse, ma in realtà per ripristinare il ‘decoro’ cittadino, altro nome oggi dato ai dispositivi securitari”. In ogni caso, la frammentazione del mercato del sesso richiede politiche differenziate. Ad esempio, nei confronti della prostituzione straniera e di quella minorile, non c’è dubbio che vadano utilizzati strumenti di repressione, meglio se meno grossolani e indiscriminati di quelli cui si fa ricorso abitualmente. Per altri settori del mercato del sesso – certo minoritari – l’emersione dalla clandestinità, l’adozione di misure fiscali e di provvedimenti igienico-sanitari può rappresentare una soluzione efficace. Più in generale, la regolamentazione di fenomeni sociali di ampie dimensioni, correlati a consumi e costumi costretti nelle pieghe della vita sociale e oggetto di riprovazione morale, se attuata con saggezza e duttilità, può produrre effetti positivi. Ecco perché sono favorevole a una politica, parziale e prudente, di legalizzazione: non certo nella prospettiva di “abolire il male”, ma in quella di circoscriverlo, disinnescandone le conseguenze più dannose per il singolo e per la collettività, sottoponendolo al controllo pubblico. È la strategia della riduzione del danno, che già è stata applicata in altri paesi rispetto al consumo di sostanze stupefacenti, di alcol e di altre forme di dipendenza (compreso il gioco d’azzardo).
Certo, governare razionalmente un simile fenomeno è impresa assai ardua. E richiede la capacità di combinare insieme – all’interno di una strategia differenziata lungo i diversi segmenti di mercato – un atteggiamento compassionevole, capace di offrire scampo e opportunità alternative di vita alle donne che si trovino in condizione di servitù sessuale; e allo stesso tempo, la possibilità di lavorare come operatrici del sesso a quante (magari poche) liberamente lo vogliano, in condizione di regolarità e controllo igienico-sanitario e fiscale. L’importante è sapere che si tratta di una materia incandescente, che non può affidarsi a ideologie rigide e a schieramenti precostituiti, e che mette in gioco le nostre convinzioni più intime.
generazione ansiosa