Puttana a chi?
Due libri da leggere per capire che su prostituzione e case chiuse non si può essere dogmatici
Roma. Ha ragione Luigi Manconi quando scrive che di case di tolleranza e prostituzione dobbiamo cominciare a parlare sapendo che “si tratta di una materia che non può affidarsi a ideologie rigide e a schieramenti precostituiti, e che mette in gioco le nostre convinzioni più intime”. Dacché una posizione rigida l’abbiamo più o meno tutti, l’azione preliminare che ci tocca è metterla in crisi, o almeno tra parentesi. Dobbiamo smetterla di soffocare lo scandalo e prendere a guardarlo. Questo scandalo: la prostituzione può essere una scelta libera e consapevole. Il condizionamento che per decenni ci ha fatto aborrire la possibilità che una donna potesse essere tanto padrona del proprio corpo da venderlo non trova più un fondamento sicuro nella soggezione femminile, che se non ha i minuti contati ha comunque di molto allentato la pressione sull’autodeterminazione delle donne. Quel condizionamento trova ancora terreno fertile in un’idea di libero arbitrio piuttosto stretta: potendo scegliere, nessuna donna si prostituirebbe. Da cosa lo deduciamo, oltre che dalla ferrea convinzione che l’amore e il sesso a pagamento siano turpi e dall’idea per cui una donna non farebbe mai niente di orribile, se non perché soggetta a un giogo? Siamo sicuri che farsi pagare per un’ora d’amore sia esecrabile e che ritenere che lo sia, legiferando di conseguenza, tuteli quelle altre donne che vengono ridotte a schiave del sesso?
“Prostituirsi non è mai una libera scelta, ma è sempre frutto di pesanti condizionamenti”, ha detto a Repubblica Rita Oliva de Conciliis, presidente dell’associazione Rete per la parità, accorsa a “portare la voce delle donne davanti ai giudici costituzionali”, prima che, il 5 marzo, la Corte si riunisse per esaminare la costituzionalità della legge Merlin, laddove configura come reato il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione. Tralasciamo il rabbrividente vizio che certi movimenti hanno di usucapire i megafoni e parlare mai per sé ma sempre per conto di moltitudini che riducono a una sola voce: la propria. La posizione della Rete per la parità è un esempio della rigidità che dovremmo mettere da parte per affrontare quel dissidio su cui la discussione sulla prostituzione s’arena.
Serviamoci della letteratura. Quest’anno, poco prima e poco dopo che il senatore Gianfranco Rufa della Lega avanzasse la proposta di riapertura delle case chiuse, sono usciti “Dolcissima abitudine” di Alberto Schiavone (Guanda) e “Ottanta rose mezz’ora” (Marcos y Marcos) di Cristiano Cavina: in entrambi abitano due puttane. Belle, appassionate e giustiziere degli ingiusti come quelle della nota casa di tolleranza di via dei Fiori, ma a differenza loro fiere di aver scelto di guadagnarsi da vivere facendosi amare sul letto di casa propria. In “Dolcissima abitudine”, Rosa è una delle prostitute più desiderate di Torino: dagli anni Sessanta ai primi anni Zero s’arricchisce, lavora duro, non rimpiange mai un marito. Ha avuto un figlio da giovanissima e lo ha dato ad altri più “rispettabili”. Quando, ormai anziana, piena di case, vestiti, ricordi di uomini che l’hanno amata e seguita sempre, che hanno cambiato medico ma non lei, decide di andare in pensione e di presentarsi a suo figlio, si accorge che la sua vita la mette in difficoltà. Cosa penserà questo ragazzo di me? Mi crederà se gli dirò che “il futuro è una persona in più da amare”? Che il mio lavoro non dice di me niente di più di quello che gli dirà il mio amore per lui? Che non ho avuto padroni ma soltanto uomini che “mi hanno fatto di tutto”?
I crucci di Rosa sono responsabilità di un retaggio che stiamo perpetrando per una ragione giusta? Stabilendo che le donne non si prostituirebbero mai di propria volontà, quante di loro costringiamo alla vergogna, al tormento, al pensarsi inadatte e inaccettabili? La protagonista di Cavina, invece, crucci non ne ha. Si ritrova senza soldi, ne vuole molti e subito e decide, facendosi aiutare dall’uomo che ama, di prostituirsi. Lo fa con una lucidità che porta avanti fino a quando non smette perché resta incinta. Dentro una parentesi della sua vita, quindi, si serve di uno strumento facile e tutto suo. Quando decide di smettere, lo fa anche perché non sopporta più l’odore degli uomini e il fatto che “non vogliono solo scopare”. Le riesce cioè un’altra operazione che non sappiamo accettare: separa il corpo da tutto il resto.
“Le storie di puttane si assomigliano tutte, eppure ognuna è la peggiore”, scrive Schiavone. Chi lo sa se la colpa è anche del ribrezzo che mettiamo nella parola “puttana”, quando la pronunciamo.
generazione ansiosa