Per la parità di genere non servono quote, ma più asili nido
Per questo 8 marzo c’è chi indice l’ennesimo sciopero, chi regala caramelle al limone, chi distribuisce volantini maschilisti, e chi cerca soluzioni a un problema complesso
Per questo 8 marzo c’è chi indice l’ennesimo sciopero (a scapito delle donne), chi regala caramelle al limone, chi distribuisce volantini maschilisti, e chi cerca soluzioni a un problema complesso. La Società italiana degli economisti (Sie) ha di recente promosso delle linee guida per la parità di genere negli eventi scientifici, incoraggiando gli organizzatori di convegni a sviluppare “una strategia deliberata di parità di genere”, per evitare che una scarsa presenza di donne fra gli speaker – e non solo in ruoli cerimoniali – rafforzi “gli stereotipi in termini di competenze scientifiche”.
Certamente il problema degli stereotipi di genere è ancora presente fra gli economisti. Heather Sarsons, dottoranda di Harvard, ha trovato un modo affascinante per misurarlo: quando uomini e donne scrivono articoli da soli, la probabilità – a parità di qualità scientifica – che migliori la loro carriera è uguale. Ma quando i paper sono coautorati, per gli uomini la probabilità è maggiore (8 per cento) che nelle donne (2 per cento): chi legge il paper automaticamente assume che sia l’uomo l’autore principale e la donna subordinata. Contro questi stereotipi è giusto riaffermare, con i dati e con l’esempio di tante eccellenti economiste, che non ha senso sprecare talento per colpa dei pregiudizi. Ma guardando ai panel degli eventi Sie dal 2014 al 2018, la percentuale delle economiste oscilla fra il 31 e il 36 per cento. Le donne che, a vario titolo, hanno posizioni accademiche in questo settore disciplinare sono, nel 2018, circa il 38 per cento. Non sembrerebbe esserci una sottorappresentazione troppo forte, ma nemmeno è strano che siano proprio le organizzazioni già virtuose a promuovere battaglie simboliche. Il problema è però che una battaglia simbolica, per un problema ridotto, può avere conseguenze inintenzionali non desiderabili.
Le quote di discriminazione positiva sono una politica istintivamente facile, ma pericolosa. La logica è che mostrando donne in ruoli apicali si fornisca un esempio educativo, si ispirino altre donne a perseguire determinate carriere. Il problema di queste politiche – anche quando adottate da organizzazioni e non dai governi – è che rischiano di generare lo stereotipo contrario. Tutti ricorderemo le goffe slide di Strumia al Cern e il Memo di James D’Amore a Google, in cui con diverse inaccuratezze denunciavano quello che tanti pensano nei corridoi: le politiche a favore delle donne, pur non volendo, spesso mettono in secondo piano il merito.
In “Private truths, public lies” (Harvard University Press), Timur Kuran analizzava come politiche di affirmative action per le minoranze nelle università americane, lungi dallo sradicare i pregiudizi, generavano un risentimento nascosto verso chi riceveva un accesso privilegiato a posizioni competitive. Quando la selezione guarda un qualsiasi criterio diverso dal merito – come sesso, razza o reddito – la percezione, se non la conseguenza, è che il merito non conta. Nessuna economista vuole partecipare a un panel sapendo che i colleghi si chiedono se davvero quel paper è il più interessante, o se è stato scelto per garantire l’equilibrio di genere. Non è un pregiudizio di cui le giovani economiste hanno bisogno: hanno già abbastanza problemi con cui scontrarsi.
Proprio guardando ai dati che la Sie ha meritoriamente raccolto e divulgato, è palese che le donne abbiano un problema di carriera. Benché nelle facoltà di economia le donne costituiscano quasi la metà degli studenti (il 42 per cento nel 2017-18), la metà di chi consegue un dottorato (50 per cento nel 2015-16) e più o meno la metà dei ricercatori (48 per cento nel 2018), man mano che si avanza tutto cambia: diventa professore associato appena il 41 per cento e ordinario il 23 per cento.
Le ragazze si iscrivono a economia e tentano la strada della ricerca. Non hanno bisogno di essere ispirate. Ma hanno bisogno che si rifletta seriamente sul perché si perdono per strada. Più che la rappresentazione, probabilmente il problema è la lunga precarietà dell’accademia: mal si concilia con scelte personali difficili da procrastinare per motivi biologici. Le cui conseguenze, per motivi culturali, ancora cadono sproporzionatamente sulle donne. Il motto dell’accademia è “publish or perish”: è dura pubblicare quando un figlio piange la notte, quando devi gestire una casa – e le giovani ricercatrici, così come tante giovani madri, non possono contare su asili nido e tanti altri servizi che ci si potrebbe aspettare da un paese con una spesa pubblica alta come quella italiana.
Qualche giorno fa, su l’Economia del Corriere, Veronica De Romanis raccontava uno studio secondo cui, le economiste giudicano le politiche in maniera più analitica e meno politicizzata dei loro colleghi. La diversità quindi non è un fine, ma un mezzo per ottenere politiche migliori. E allora l’iniziativa della Sie di attivare una commissione di ricerca su questi temi, e contribuire al dibattito pubblico – così come ha fatto in occasione della lettera alla Rai contro il servizio sul signoraggio – diventa molto più importante delle linee guida. Perché le cause, non simboliche, ma economiche e strutturali che rendono difficile fare carriera in accademia sono molto simili alle cause per cui fanno fatica a fare carriera tante donne in Italia, dove il tasso di occupazione femminile è al 49 per cento, penultimo in Europa. Ed è un tema su cui abbiamo bisogno davvero di riflettere, anche l’8 marzo, “come fanno le donne”: in maniera più analitica e meno politicizzata.
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