Will Smith non abbastanza nero e l'Otello completamente bianco
Cinquanta sfumature di nero. E’ il colorismo, l’ultima pazzia pol. corr.
Roma. Genderismo, femminismo, antisessismo, anticlassismo, per restare ai più noti ismi che impazzano da anni nella cultura americana. E come poteva mancare il colorismo? Non importa che la serata degli Oscar sia diventata la serata della diversity, che abbia vinto “Green Book” (film sull’amicizia fra un bianco e un nero durante un tour nei razzisti stati americani del sud), che il regista Spike Lee si sia lamentato ritenendo quel film non abbastanza antirazzista o che la vittoria di Rami Malek sia stata salutata come quella del “primo arabo-americano a essersi aggiudicato un Oscar come miglior attore protagonista”. Nella gara al vittimismo, l’uomo bianco è chiaramente feccia e oppressore, ma anche fra i neri, adesso c’è nero e nero. Anzi, ci sono cinquanta sfumatore di nero e di vittimismo.
Quando è stato riferito che Will Smith avrebbe vestito i panni del padre di Vanessa e Serena Williams, Richard, l’indignazione e l’inferno si sono palesati su Twitter. E’ stata criticata la decisione a causa del fatto che il colore della pelle di Smith è molto più chiaro di quello di Williams. C’è chi ha già fatto i nomi alternativi di Idris Elba e del premio Oscar Mahershala Ali. Il colorismo è una teoria uscita dalla penna della scrittrice autrice del “Colore Viola”, Alice Walker, per spiegare il pregiudizio riposto sulle persone “più di colore” e i privilegi concessi a chi ha la pelle più chiara. A iniziare la polemica è stato Clarence Hill junior del giornale Fort Worth Star Telegram. “Il colorismo conta”, ha scritto: “Amo Smith ma ci sono altri attori neri per questo ruolo”. La Bbc, nel riferire del caso, parla di “una forma di discriminazione nei confronti delle persone con la pelle nera da parte di persone della stessa razza ma con la pelle più chiara”. E’ intervenuto il giornalista George M. Johnson: “Will non dovrebbe interpretare Richard. Il colore della pelle è importante per il modo in cui i popoli sono stati trattati”.
In pratica gli estremisti politicamente corretti accusano Hollywood, nonostante le sue credenziali antirazziste messe in mostra come facevano i generali sovietici con i gradi sulle divise, di privilegiare attori “meno neri” di altri per i ruoli delle vittime del razzismo, per rendere la pellicola più adatta al palato del grande pubblico. Il colorismo è entrato anche nell’Oxford Dictionary: “Pregiudizio o discriminazione nei confronti di individui dalla pelle scura da persone appartenenti allo stesso gruppo etnico o razziale”. Una sorta di residuo della schiavitù, quando gli schiavisti bianchi avevano mostrato un trattamento preferenziale per gli schiavi dalla pelle più chiara. Dunque tutto il successo delle varie Beyoncé e Rihanna sarebbe imputabile a questo tratto della pelle (perché non anche di Barack Obama?).
Anche nei teatri di Broadway impazza l’applicazione del politically correct. Il nuovo Otello al Metropolitan ha il volto di Stuart Skelton, ma non c’è traccia di nerofumo sul suo volto, come fece Orson Wells, in omaggio alla versione ufficiale secondo cui l’immortale personaggio shakespeariano fosse un moro. Allo stesso modo, se si va a vedere “King Kong” non c’è più una bionda, come Jessica Lange, ma una ragazza di colore. Sembra di essere tornati agli inizi, alla Parigi degli anni Trenta, dove fu lanciata la parola coniata da Aimé Césaire e adottata da Léopold Senghor: negritudine. La parola d’ordine di tante forme di orgogliosa assunzione e difesa della condizione dei neri. Ma anche di future guerre intestine di neri contro altri neri.