Fate presto, fate sesso
Quando è l’ultima volta che avete fatto l'amore? Crisi dei ruoli, gender fluid, rapporti virtuali, maschio tisana. La recessione più pericolosa, non solo per l’Italia, è quella sessuale. E se il sesso va in crisi è anche un problema politico. Numeri e storie
Lasciate stare la recessione economica. Tecnica o meno che sia, indotta o accidentale, non deve preoccuparvi quanto quella sessuale, che potrebbe essere sistemica ed endemica come il crollo demografico, e che sull’economia potrebbe avere (ha già?) un impatto più devastante ancora, perché ci deprime e infelicita e se siamo depressi e infelici non consumiamo, non facciamo figli, andiamo in terapia a rimuovere la tristezza minima della perdita, lasciando però intatta quella massima della solitudine, che ha un solo rimedio: gli altri, e l’inferno che sono.
In Giappone succede già da tempo, perché l’essere umano è eroso, periclitante, smarrito e intristito ovunque, e la felicità è diventata una chimera, come scrive Houellebecq, che però sbaglia a localizzare il problema in Occidente: sono infelici anche a est, si sono ritirati dal fare l’amore anche laggiù. Questo è la recessione sessuale: niente amore, niente sesso, niente relazioni. Non scopa più nessuno, quante volte lo avete detto all’ora dell’aperitivo? No, certo, voi no, voi non parlate così, però le vostre amiche sì, e loro a esser precisi hanno detto un mucchio di volte – e perdonerete la volgarità, ma all’ora dell’aperitivo parecchio pessimo vino fa dire parecchia pessima verità: “Non mi scopa più nessuno”. La femmina nuda soffre il maschio tisana, e lo sollecita, e lo implora, e quello niente, torna a casa e si nasconde sotto al letto. La femmina nuda reclama legittimamente il suo diritto a essere orribile, sgraziata, gelosa, carnale, volgare, infuocata, porca, padrona, libera, dominata e dominante, in omnia parata; il maschio tisana, altrettanto giustamente, vuole potersi ritirare, in ciabatte, a guardare un porno sul divano, e a dire “Ma sai che c’è? Tutta questa fatica per corteggiarti, sedurti, ammaliarti, portarti a casa e quindi a letto, ma chi me la fa fare? Preferisco Netflix. E chi me lo dice, poi, che se allungo troppo le mani non ti senti violata se non addirittura violentata? Insomma, oh, io sono una brava persona, ma che cosa vuoi da me? Vieni, dai, giochiamo a burraco”. Pover’uomo. E povere noi.
Il maschio tisana lo ha teorizzato Antonio Pascale in un episodio del suo “Le aggravanti sentimentali”, dove una disgraziata trentacinquenne, una di noi, un po’ millennial e un po’ no, molto carina e simpatica, intraprendente e onesta, non solo non riesce a trovare un amore, ma neanche un’amicizia di letto, neanche un compagno di brindisi (gli uomini che si porta a casa, quando lei offre loro del vino, rispondono: perché, invece, non ci facciamo una tisana?).
Quando il premier svedese dice che se le condizioni sociali per una buona vita sessuale sono deteriorate è un problema politico, ha ragione perché prima di pensare alla natalità, pensa al deterioramento sociale, alla difficoltà delle persone di essere felici, di stare insieme, di integrarsi in una comunità
“Quando ho scritto quel libro, ho raccontato da una parte la stanchezza nel dover ripetere un rituale di seduzione ormai esautorato, che però non si ha il coraggio di abbandonare completamente e del quale, quindi, restano alcuni segnali. Mi colpiva molto questo: si instaurava un processo di seduzione che poi non si portava a termine. E questo valeva e vale soprattutto per la mia generazione”, dice al Foglio Antonio Pascale. E dall’altra parte? “I trentenni che si sono ritrovati dentro a una transizione, un cambio di passo, un abbattimento di regole che, per quanto assillanti, assegnavano ruoli precisi: il playboy, l’incantatore, il seduttore, l’alfa. La cultura meridionale ha dato indicazioni eccessive per i rapporti tra uomini e donne, per i maschi valeva la regola dei “devo”: devi fare così, altrimenti sei ricchione. Per quanto fosse schiacciante, almeno sapevi cosa dovevi fare: crollate queste regole, i trentenni si sono ritrovati a giocare la stessa partita di sempre senza sapere bene in quale veste. Questa incertezza ha creato un enorme imbarazzo”.
Nell’ultimo disco di Luca Carboni, che come Pascale è nato negli anni Sessanta, c’è una canzone che fa così: “Io non voglio fare l’amore. Voglio un miracolo. Un cambiamento radicale”. Accidenti. Anche lui. Persino lui. Che 27 anni fa cantava così: “Ho bisogno di vederti. Di vederti e di toccarti. Ho già fretta di infilarmi nel tuo cuore. No, non hai capito, non ho detto di spogliarti. Io ci voglio entrare adesso anche se sei vestita”. Eravamo tutti più giovani, e troppo italiani, però cominciavamo a beneficiare della rivoluzione sessuale e dell’emancipazione del sesso dall’amore, e a nessuno sarebbe venuto mai in mente che proprio in quel momento la grande ritrazione cominciava. Sul numero di dicembre scorso dell’Atlantic dedicato alla “Sex Recession” è scritto chiaramente: i guai sono cominciati negli anni Novanta. Dal 1991 al 2017 la percentuale di adolescenti sessualmente attivi è calata dal 54 al 49 per cento: nel giro di un paio di generazioni, il sesso è passato dall’essere un’esperienza comune al non esserlo. Nel 2015, meno della metà dei liceali americani dichiarava di uscire con qualcuno. In Finlandia ci si è preoccupati per una epidemia di masturbazione. In Svezia (il paradiso delle culle, del welfare familiare, delle libertà individuali, dell’assenza di condizionamenti culturali bigotti) si sono decisi a condurre la prima ricerca sulle abitudini sessuali degli ultimi vent’anni: è venuta fuori persino lì una curva discendente, e il ministro della Salute ha subito scritto un op ed per dire che “Se le condizioni sociali per una buona vita sessuale sono deteriorate, è un problema politico”. Ma qual è il criterio per giudicare la bontà della vita sessuale? Il successo riproduttivo o la soddisfazione dei contraenti?
“Perché i giovani stanno rinunciando all’intimità e cosa questo comporta per la società”, si è domandato l’Atlantic, e in copertina ha piazzato un pettirosso e un’ape, forse perché sono entrambi difficili da incontrare, l’ape rischia persino l’estinzione, e il pettirosso abita dove c’è aria pulita. Se smetteremo del tutto di fare sesso ci estingueremo, o arriveremo a riprodurci in un altro modo, magari più pulito, meno rischioso, meno invasivo, del tutto solitario e artificiale? Ve la sentireste di escluderlo?
Negli ultimi 15 anni, la frequenza
dei rapporti nelle coppie italiane
è scesa del 10 per cento.
In America, negli anni Novanta,
gli adulti dichiaravano di fare sesso 62 volte all’anno, nel 2014 solo 54. In Inghilterra i rapporti sessuali
degli under 45 sono passati da 6 a 4 dal 2001 al 2012
“Dal punto di vista biologico, il sesso serve a formare dei legami stabili. Più lo fai, più relazioni durature fondi. Al contrario, se non hai buoni rapporti sessuali, è più difficile che questo accada. Poi, naturalmente, non è detto che senza il sesso una coppia non possa andar avanti e trovare altri tipi di complicità. Tuttavia, io continuo a vederla dal punto di vista della biologia evoluzionista: da lì, il sesso serve, eccome. E anche come metodo di conoscenza dell’altro io credo che il sesso sia migliore, più veloce, immediato”, dice Pascale. La coppia, che cosa novecentesca. Scrive l’Atlantic che il guaio dei millennial con il sesso è soprattutto pratico: come fai a instaurare una relazione se vivi in casa con i tuoi genitori? Dove vai a fare sesso, nella tua cameretta accanto alla stanza da letto dei tuoi? A sedici anni può andare anche bene, ma a trentacinque diventa imbarazzante: meglio marcire che provare imbarazzo; l’imbarazzo è in assoluto la condizione dalla quale rifuggiamo di più, ed è per questo che la retorica sulla bellezza della fragilità è così in voga: speriamo ci salvi, speriamo insegni alle persone a essere misericordiose sempre, a dispensarci dalle conseguenze della nostra goffaggine, a non vederla affatto o a farsene intenerire, persino impietosire.
L’eterosessualità, una categoria come le altre. La parificazione dei sessi
che ha eliminato il piacere della conquista, e dirottato altrove l’impulso narcisista. La “malattia inguaribile” di nascere maschi negli anni Settanta. Gli immobilizzati davanti al porno. I tutorial e le serie tv. Il gioco
Il sesso, come il lavoro, la patente, l’andar fuori a bere, il pagarsi le bollette di casa propria sono tutte cose che si possono fare se si è indipendenti e che, insieme, edificano l’autonomia dell’individuo. La congiuntura globale economica, dal 2007 in poi, avendo rallentato l’emancipazione economica dei ragazzi (i millennial, appunto), ha sfoltito le attività propedeutiche e collaterali di quella emancipazione. “My apartment is my dream guy”, ha scritto Lena Dunham su Twitter qualche giorno fa. Milletrecento cuoricini e 137 retweet. Lei, la regia e il corpo dell’opposto di Sex and The City, del momento in cui ci siamo svegliati, dopo anni di sacrifici e individualismo, e anziché lucenti, bellissimi, competenti, in carriera, ricchi, appagati, liberi, ci siamo ritrovati goffi, brutti, depotenziati, sviliti, poveri, precari, con una vita sentimentale ridicola e una vita sessuale grottesca.
my apartment is my dream guy
— Lena Dunham (@lenadunham) 26 marzo 2019
Sogniamo l’appartamento e abbiamo quasi quarant’anni. Il punto è, però, che sul divano di quell’appartamento non faremmo sesso estremo: guarderemmo una serie tv, scrolleremmo Tinder, faremmo una video chiamata. Il virtuale è un grande imputato nel processo sulla recessione sessuale. Nel 2012, gli americani in possesso di uno smartphone superarono il 50 per cento e, dall’anno prima, il tasso di suicidi avevo preso a salire in modo preoccupante (oggi sappiamo che non è esistita nessuna giovane generazione più depressa e incline ai disturbi mentali come l’attuale). Le accuse sono quelle che sentiamo da sempre: la vita virtuale allontana da quella vera; all’inizio ti fa comodo, poi t’impigrisce e infine ti aliena; ti disabitua al confronto con l’altro, rendendotelo immediatamente ostile.
Le applicazioni per la ricerca di un partner stabile sono meno usate di quelle più prosaiche come Tinder, nate per procacciarsi sesso facile, veloce, possibilmente indolore. Ma siccome come sempre è la funzione che fa l’uso, sta accadendo che su Tinder o finisci con l’incontrare l’uomo che sposi o, come in un appuntamento al buio, ti annoi dopo le prime quattro chiacchiere e cambi foto profilo (e conversatore, sia chiaro). Stando agli ultimi dati diffusi dalla società proprietaria dell’App, attualmente su Tinder avvengono 1,6 miliardi di scambi al giorno e, di questi, solo 26 milioni portano a un incontro reale: per il resto, o ci si congeda, o ci si masturba, o ci si manda un paio di foto un po’ porno e niente di più.
“Lo smartphone è il regalo che facciamo ai ragazzini per la loro prima comunione, a nove anni. Così, mettiamo loro internet in tasca e, con internet, la pornografia, ma non li dotiamo di strumenti adatti per capirla. Il primo approccio con il sesso, ormai, è quello lì: vai online e vedi adulti che fanno sesso, a volte in modo violento, esagerato, pazzesco, e non avendone neppure mai sentito parlare, è così che formi il tuo immaginario sessuale, ed erotico. E’ uno scandalo che la scuola italiana non insegni educazione sessuale e, invece, la subappalti alle famiglie, che a loro volta la subappaltano al silenzio”, dice al Foglio Mario Desiati, scrittore. E tocca un punto assai dolente. Perché all’importanza dell’educazione sessuale crediamo tutti, ma nessuno abbastanza da incaricarsi della battaglia, anche politica, per garantirla. In fondo, crediamo che i bambini non abbiamo pulsioni, desideri, preferenze sessuali e siamo ancora il paese con “il ministero delle cicogne”, come cantava Guccini nel suo Talking sul sesso (è una canzone degli anni Settanta e sembra scritta nell’Italia di domani e pure di dopodomani).
La femmina nuda reclama il suo diritto a essere infuocata e orribile. L’uomo tisana vuole potersi ritirare in ciabatte
In fondo, prima di internet potevamo permetterci di credere che a far l’amore i bambini dovessero imparare da grandi, scioccamente convinti com’eravamo che il sesso andasse separato dalla vita quotidiana, e che l’igiene sessuale nulla avesse a che fare con quella relazionale, e che imparare la relatività e reciprocità del gusto, del piacere, del rispetto del corpo dell’altro fosse un’operazione né scolastica né etica o civica (lo è eccome, invece), ma squisitamente privata e individuale. Adesso è diverso: il sesso è dappertutto ed è un sesso irreale, immaginifico, a volte stupendo e catartico, o soltanto fresco e leggero, altre volte, invece, è violento, doloroso. Affinché questa sovraesposizione non si ritorca contro chi la fruisce, specie in modo passivo e inconsapevole come fanno i bambini, è necessario guidare all’intimità del corpo e al modo in cui funziona il piacere. Una delle cose più discusse, nei primi mesi del #metoo, è stata proprio l’educazione sessuale: più appropriatamente, si deve forse dire che era di rieducazione sessuale che si parlava, intendendola mirata soprattutto ai maschi, e inglobandola nel più vasto progetto di smantellamento del patriarcato, che nell’erotismo ha la sua traccia più evidente nel gioco di sottomissione della donna. Ben prima del metoo, però, a sovvertire e alleggerire le regole del gioco sessuale, a insegnare che il piacere femminile è largo e variegato, lento e sorprendente, fantasioso e bizzarro, affamato e perverso non come quello maschile ma altrettanto condizionante, hanno cominciato le pornostar. Da Fingered di Lydia Lunch alle Ragazze del porno, passando per il post porn modernist di Annie Sprinkle, le donne hanno elaborato e goduto un proprio immaginario sessuale.
Michele Monina, in un suo libro per Skira di due anni fa, ha scritto che il pop s’è messo le mutande e ha analizzato lucidamente come, negli ultimi dieci anni, una strana forma di sessuofobia abbia espunto completamente il sesso dalla canzone mainstream, dalla performance musicale, insomma dalla parabola creativa delle cantanti pop. Un video come quello di Wrecking Ball, con Miley Cyrus che, seminuda, dondola a cavalcioni su un gigantesco pendolo di pietra, oggi sarebbe piuttosto impensabile. O, meglio, attizzerebbe sfibranti indignazioni da tastiera. E’ piuttosto incredibile che, dopo aver contenuto l’epidemia di AIDS, aver scardinato la monogamia (adesso abbiamo il poliamore!), imparato a controllare la fertilità, sfasciato la maggior parte dei tabù sul corpo e sul piacere, accolto e benedetto le perversioni come fossero commedie, ora che Teen Vogue pubblica infografiche su come praticare sesso anale sicuro e piacevole, che Pornhub è una piattaforma dove capita che un musicista scelga di promuovere il suo disco (lo ha fatto Salmo, bravone) e insomma c’è più sesso fuori casa che dentro, ci troviamo a fare i conti con la sua decrescita. E se fosse semplice allarmismo? “Non sarà un problema vostro?”, mi risponde un diciassettenne romano, quando gli chiedo se sappia di cosa parliamo quando parliamo di recessione sessuale (dopo essersi assicurato che: non dirò né chi è, né dove l’ho incontrato). Mi dice anche che non è vergine, il porno gli fa schifo (“lo guardate voi”), le ragazze non lo spaventano, un cisgender non sa cosa sia, la differenza tra transessuale e transgender neppure – “ma è così importante?” – da grande vuole avere più di un bambino perché lui è figlio unico e non gli piace, la più bella ragazza del mondo ancora non l’ha vista, per adesso va in palestra.
Dal 1991 al 2017 la percentuale di adolescenti sessualmente attivi è calata inaspettatamente dal 54 al 49 per cento
Una sua coetanea (anche lei mi fa giurare di non dare nessuna indicazione su chi è, e non pensate che sia per timidezza: è che dei giornali non si fida) mi dice, invece, che figli non ne vuole, ma amori sì, moltissimi, con chiunque, e che le piacciono le ragazze e i ragazzi e il sesso “non è così importante”, che Tinder le mette malinconia e non l’ha mai usato, però è uscita con qualche ragazzo conosciuto su Instagram e una volta ha fatto sesso con la sua migliore amica, per fare pratica, ed è stato così orribile che poi non si sono viste per settimane. Non mi sembrano risposte troppo diverse da quelle che avrebbe dato un sedicenne della mia generazione, nel 2001, quando al sesso le ragazze si preparavano leggendo i diari delle sorelle più grandi e i ragazzi facendo cose disgustose davanti a Baywatch. Mi sembrano, in verità, risposte più spensierate di quelle che avremmo dato noi, quindici anni fa, e allora mi domando se adolescente romano numero uno non abbia ragione e se il problema della recessione sessuale non sia soltanto nostro, di noi trenta-quarantenni stritolati in una svolta, terrorizzati, indifesi, ciondolanti sugli amabili resti del mondo diviso in maschi e femmine, in sopra e sotto, attacco e difesa, del tutto inadeguati a immetterci nel fiume del fluid, a scrivere il nostro genere sessuale con un asterisco.
Barbara Costa, scrittrice (il suo “Pornage. Viaggio nei segreti e nelle ossessioni del sesso contemporaneo” uscito pochi mesi fa per Sellerio è un libro che dovete avere), dice al Foglio: “Non penso ci sia alcuna recessione sessuale, né calo del desiderio. Penso, invece, che ci sia una rivoluzione in senso identitario. Oggi si lotta per il diritto a essere sé stessi, unici, e questo coinvolge anche il diritto a una sessualità che non segua tappe stabilite da un passato basato su valori in cui non ci si riconosce. In un gruppo di amici, adesso, l’emulazione dell’altro conta poco, è diventata relativa: contano gli youtuber che dal proprio smartphone ti parlano con il ‘noi’. Sul web, i ragazzi seguono chi non li giudica; grazie al web scoprono che ci si può definire asex, fluid, o qualsiasi cosa ci si sente di essere, mettendo l’eterosessualità al posto che le compete: una categoria tra le altre”.
Che la recessione sessuale sia un finto problema che però ne riveste (traveste?) uno reale, e cioè la nostra pigrizia nell’escludere dallo sguardo sull’evoluzione del sesso l’emergere dell’intersessualità l’ostinazione con cui continuiamo a distribuire il reale e il naturale dentro categorie evidentemente insufficienti, è convinto anche Mario Desiati: “Gli studi che da anni ci dicono che l’essere umano si estinguerà, che ha smesso di fare sesso, e di desiderare l’altro sono nude statistiche con cui tranquillizziamo la vecchiaia. Io ho la sensazione che le persone facciano l’amore come prima, forse anche di più. E se lo fanno male è perché manca una consapevolezza della propria identità sessuale. La bisessualità maschile è ancora un tabù, il maschio alfa è ancora un modello, la maggior parte della pornografia è ancora eterosessuale, e propone un mondo di maschi bianchi occidentali”.
Se finire a letto con qualcuno non è un termometro di successo,
gli adolescenti che di quel successo sono ghiotti andranno a cercare
altri mezzi per sfamare l’impulso narcisista. Un post che riscuota gradimento soddisfa l’appetito di conquista in un modo che il sesso inflazionato non riesce più a fare
Dice Barbara Costa che questo che viviamo è addirittura uno dei periodi migliori possibili per il sesso, perché la libertà e la consapevolezza sono aumentate, e gli strumenti per strutturarle sono di facile accesso: internet, maggiori possibilità di incontri, il mondo in tasca, famiglie meno oppressive. Secondo Desiati, invece, il contatto costante con l’altro sulle piattaforme virtuali può portare a “sublimare in altro modo”. Ed è un punto anche questo: la parificazione dei sessi, avendo svuotato almeno nominalmente la super potenza e la dominazione sull’altro del loro valore erotico (di cui per anni si è presunta la coessenzialità), ha eliminato dal sesso il piacere della conquista. Questo ha inevitabilmente abbassato il quoziente di soddisfazione narcisistica del corteggiamento e dell’amore carnale.
Se finire a letto con qualcuno non è più un termometro di successo personale, gli adolescenti che di quel successo sono ghiotti andranno a cercare altri mezzi per sfamare l’impulso narcisista. Un post su Instagram che riscuota un alto gradimento soddisfa, di fatto, l’appetito di conquista, in un modo che il sesso, inflazionato com’è, non riesce più a fare. Insieme all’inflazione, tuttavia, gioca una parte in questo anche l’accidia: perché scomodarsi a uscire di casa, incontrare qualcuno, averci a che fare, farci l’amore e – aiuto, aiuto! – finito quello doverci parlare? Ingegnarsi per una bella foto e un’ottima didascalia è meno dispendioso e, di certo, ha assai meno effetti collaterali. Con un post di Instagram che ti dà una scarica di adrenalina perché ha ricevuto 700 like, non devi mica parlare di sovranismo, di come sei cresciuto, cosa hai votato, qual è l’ultimo libro che hai letto, né devi badare a non offenderlo, cercando di presentire i traumi pregressi.
“L’educazione sessuale servirebbe anche a questo: insegnerebbe ad affrontare il dopo, quello che succede a lenzuola dispiegate, e umori versati. Io sono ormai un vecchio, ma sento che mi sarebbe servita tantissimo e ancora mi servirebbe. Questo è un paese che ignora le pratiche del consenso, che non ragiona su come il corpo si leghi all’interiorità, su come si rispetta l’intimità del partner e come si leggono le sue vulnerabilità. Sono una serie di mancanze che non possono che renderci nevrotici”, dice Desiati. Quindi, signori, più che per il poco sesso, dovremmo forse cominciare a preoccuparci per il sesso fatto male. E agire sul retaggio che ce ne fa svalutare le conseguenze, imponendoci di accettarle come un fatto inevitabile. “Nascere maschi è una malattia inguaribile”, ha scritto Albinati ne “La scuola cattolica”. E’ impossibile illuderci che il paese in cui è cresciuto Albinati sia svanito senza lasciare traccia, ma è possibile cominciare a rendersi conto che se le generazioni che da quel momento si dipanarono hanno assorbito da una parte quella sopraffazione così incredibilmente tollerata e, dall’altra, la necessità di sradicarne il tessuto socio-culturale, è anche vero che i discendenti di quelle generazioni abitano ora un tempo che non richiamandoli a strutturare la propria identità a partire dal sesso, consente loro una diretta cesura con quella storia.
Ammettiamo pure che negli anni Settanta nascere maschi fosse una malattia inguaribile e, come ha detto Pascale, richiedesse una minuziosa adesione a una lunga tavola di comandamenti cucita addosso a un prototipo piuttosto inumano (a mostrare la crudeltà del quale il primo è stato forse Vitaliano Brancati col il suo “Il Bell’Antonio”): adesso succede che, come suggerisce Silvia Calderoni nello spettacolo su come si cresce mantenendo un sé sessualmente indefinito (MDLSX), dobbiamo chiederci cosa ci tiene insieme quando diciamo noi, se il sesso e il genere e l’identità che ne deriva contino ancora, siano ancora un elemento di appartenenza, un collante, un discernimento categoriale. Se il sesso non è più un fattore identitario, perde ulteriormente potere o ne acquista uno diverso? “Il sesso è potere, non ha mai smesso di esserlo, lo dimostra il successo degli influencer, che fotografano il loro corpo in pose sensuali, per promuoversi”, dice Barbara Costa.
A cosa reagisce, allora, la sessuofobia del nostro tempo? Al canto del cigno della famiglia tradizionale, alla mascolinità demascolinizzata, alla sbornia identitaria post femminista, alla fatica?
La lettera delle francesi contro il #metoo (quella diventata sui giornali “la missiva di Catherine Deneuve a favore delle molestie”) non temeva tanto la fine della seduzione, quanto il far diventare inammissibile che tra uomini e donne non possano esistere goffaggine, sgradevolezza, squilibri di potere. Guia Soncini disse a questo giornale: “Non elimineremo mai il fatto che tra un uomo e una donna – e tutte le combinazioni possibili – ci sarà sempre uno più bello e uno più brutto, uno con più mercato e uno con meno. E neanche il fatto che l’85 per cento di quello che facciamo, lo facciamo controvoglia, compreso il sesso”. Quanto sopravvalutiamo il sesso e il corpo? Questa sopravvalutazione è un tabù che, come tutti i tabù, ci lascia un ampio spazio d’azione nelle nostre scelte private: mentre ci diciamo preoccupati dalla decrescita sessuale, ce ne godiamo la libertà conseguente a casa nostra. Ammettiamolo: l’asessualità è terribile, ma la sessualità forzata, l’idea che tutto fosse sesso, che tra uomini e donne non potesse che esserci seduzione, che niente è più bello che scopare non ci hanno reso, per anni, la vita un inferno? E se questa disaffezione per l’orgasmo non fosse che una nuova fase della liberazione sessuale cominciata cinquant’anni fa? Chi lo sa come si assesta. Che forma prende. Chi lo sa se ripristinare l’attività sessuale forsennata e la regola aurea per garantirne l’attrattività – “meno ne parli, più scopi” – ridarebbe slancio alla demografia. Perché è questa, in fondo, la ragione delle sirene spiegate dagli editoriali: la preoccupazione che svilendo il sesso l’umanità finisca.
La lettera delle francesi contro il #metoo (quella diventata sui giornali
“la missiva di Catherine Deneuve a favore delle molestie”) non temeva
la fine della seduzione, quanto il far diventare inammissibile che tra uomini e donne non possano esistere goffaggine, sgradevolezza, squilibri di potere
Negli ultimi 15 anni, secondo un’indagine pubblicata dal Corriere della Sera, la frequenza dei rapporti nelle coppie italiane è scesa del 10 per cento. In America, negli anni Novanta, gli adulti dichiaravano di fare sesso 62 volte all’anno, mentre nel 2014 il numero era sceso a 54. In Inghilterra i rapporti sessuali degli under 45 sono scesi da 6 a poco più di 4 dal 2001 al 2012. In Giappone, nel 2015, il 43 per cento dei 18- 34enni si dichiarava vergine. Il Washington Post scriveva tre anni fa che il numero di persone tra i 20 e i 24 anni che non aveva fatto sesso era salito dal 6 al 15 per cento.
Dice Antonio Pascale: “I ritmi demografici di un tempo sono ormai impensabili. Il calo non si trasformerà mai in un rialzo. Dobbiamo accettarlo, e basta”. Fine. Negli Stati Uniti esistono gruppi di estrema destra che proibiscono ai propri membri di masturbarsi più di una volta al mese, perché hanno rattoppato informazioni pseudo scientifiche che dimostrerebbero che il sesso da soli provoca, negli uomini, disfunzione erettile e, soprattutto, demotiva la relazione. L’onanismo è un altro grande imputato nel processo sulla recessione sessuale e tanto basta a tenerci in guardia sull’altra faccia della medaglia di questa preoccupazione su quanto sesso facciamo: il desiderio di istituzionalizzare la pretesa che i corpi siano funzionali al mantenimento della specie. Quando il premier svedese dice che se le condizioni sociali per una buona vita sessuale sono deteriorate è un problema politico, ha ragione perché prima di pensare alla natalità, pensa al deterioramento sociale, alla difficoltà delle persone di essere felici, di stare insieme, di integrarsi in una comunità.
Due anni fa, il ministero dell’Interno giapponese diffuse dei dati sulle prospettive demografiche del paese: venne fuori che entro il 2060 la popolazione si ridurrà di un sesto. L’Observer scrisse un pezzo confuso e abborracciato su come i maschi nipponici fossero “uomini erbivori” capaci di eccitarsi solo con gli hentai, i cartoni animati (categoria amatissima su Pornhub anche dagli occidentali) e le donne, invece, fossero stufe di attenersi alle rigidità sociali e come a nessuno interessasse più avere nient’altro che rapporti occasionali. Venne fuori un finimondo e le inesattezze di quell’articolo tradirono la precisa volontà di non voler registrare l’esordio di uno stile di vita diverso, ancora indefinito, aperto.
Dei millennial cosa sarà? Un anno il New York Times annuncia che vogliono sposarsi, detestano i rapporti occasionali e vogliono fare molti figli; l’anno dopo ritratta tutto e dice che sono o smidollati mammoni o psicopatici ammalati di burn out.
E ai post millennial, questi malvestiti che ascoltano la trap dei cui testi affidiamo la parafrasi ai linguisti, così che le ricerche statistiche sulla recessione sessuale coincidano con quelle canzoni dove il sesso è solo schifo, abuso, cornice a un pomeriggio passato a masticare antidepressivi, invece, può darsi che il futuro riservi loro grandi sorprese? Ce ne sono molti che sono sesso dipendenti, altro che recessione. Quelli immobilizzati davanti ai porno hanno un vantaggio inimmaginabile fino a qualche anno fa: porno star che si offrono di dar loro spiegazioni, che addirittura pubblicano dei tutorial in cui spiegano come si fa un 69, cos’è il bondage (il 72,3 per cento dei ragazzini italiani dice di non averlo neppure mai provato, sarà bene o sarà male?) e perché non c’è niente di cui aver paura e dove finisce la realtà e inizia il wrestling. Hanno anche didascaliche, spassosissime, correttissime e insieme scorrettissime serie tv (Sex Education; Big Mouth) che raccontano perfettamente cosa significa vivere in un consesso sociale civile mentre dentro di te furoreggia la guerra mondiale dell’ormone.
Vasco Rossi non è riuscito a convincerci abbastanza che “fare l’amore è molto semplice, non c’è nessun perché, prendilo com’è”, ma il punto è quello là, solamente quello là.
Giocate!
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