Chi sono i nuovi italiani
Sono due milioni gli under 18. Come gestire il cambiamento. Parla un ricercatore di Fondazione Agnelli
Milano. Persino Stephen Ogongo, giornalista di origine kenyota che recentemente ha fondato il movimento Cara Italia con l’intento di portare i nuovi italiani alle amministrative (da tenere d’occhio perché fa sul serio), pochi giorni fa ha postato un video molto ripreso in rete per chiedere a Matteo Salvini di fare qualcosa di sinistra e approvare lo ius soli. O meglio, di fare quello che non ha fatto la sinistra. Il tema è destinato a diventare un tormentone nella campagne elettorali che ci attendono. Secondo Nando Pagnoncelli sul tema dello ius soli il paese è statisticamente spaccato a metà, anche se secondo l’ultimo sondaggio Quorum/YouTrend per SkyTg24, con un campione di mille interviste raccolte tra il 29 e il 30 marzo 2019, il numero degli italiani favorevoli al diritto di cittadinanza in virtù del luogo di nascita arriva al 62,8 per cento. In ogni caso, sondaggi a parte, sembra ogni giorno più difficile evitare di fare i conti con i cambiamenti socio-demografici. E soprattutto con quel milione di minorenni che ambisce ad ottenere il passaporto italiano. Anche perché quando la legge basata sullo ius sanguinis venne introdotta, nel 1992, i figli degli immigrati residenti in Italia rappresentavano il 2 per cento della popolazione – come ha rammentato recentemente su lavoce.info Alessandro Resina. Quando si parla di immigrazione e integrazione – termini che non sono sinonimi, come pare nella vulgata social, e che indicano temi complessi – si finisce prigionieri di un dibattito sterile e condizionato da una palese mancanza di discernimento.
Meglio allora chiedere una spiegazione e qualche idea interpretativa a Stefano Molina, ricercatore della Fondazione Agnelli, che di questi fenomeni si occupa da tempo. Gli abbiamo chiesto di tratteggiare un disegno-identikit di quelli che il ricercatore definisce “i figli dell’immigrazione”. Molina, da vent’anni osservatore attento delle dinamiche di integrazione studiate attraverso la lente del percorso scolastico, spiega innanzitutto che le cifre sono sottostimate. E ce ne fornisce di inedite. “Se si prende in considerazione chi ha già la cittadinanza, chi è figlio di coppie miste e tutti quelli nati all’estero parliamo di due milioni di nuovi italiani solo nella fascia di età fra 0 e 18 anni. Numeri importanti che rappresentano il 20 per cento dei minori italiani e in alcune città del Nord, come Brescia ad esempio, arrivano ad essere il 39 per cento”. Perciò i dati reali sui minorenni stranieri che restano sommersi nel caotico dibattito mediatico e politico sono i seguenti: 1 milione e 600 mila nati in Italia, 400 mila nati all’estero.
“Attenzione a non sovrapporre cittadinanza e nazionalità”, avverte però Molina. “La cittadinanza è concetto giuridico che definisce il perimetro di diritti e doveri, mentre la nazionalità è determinata da una lingua comune e da fattori culturali comuni. Altra cosa ancora è l’integrazione. Dai questionari Invalsi sugli studenti, tutti gli allievi nati in Italia da genitori stranieri (che non parlano bene o affatto l’italiano) raggiungono il 50 per cento di capacità di apprendimento della lingua rispetto ai loro coetanei, ma sono più veloci con l’inglese e la matematica. E infatti sono numerosi quelli che, una volta conclusi gli studi, (cittadinanza permettendo) si trasferiscono all’estero. Sia per le conoscenze delle lingue straniere sia per l’attitudine a spostarsi che proviene dal loro background”.
Difficile fare un ritratto nitido dei figli dell’immigrazione, ma Molina ci prova. “E’ difficile formulare un giudizio complessivo, ma le cose non sono andate così male. Al contrario di altri paesi, in Italia gli immigrati hanno preferito giocare la carta dell’essere uguali più che del voler essere diversi. Una politica della casa inesistente ha anche evitato scelte controproducenti, come quelle che hanno concentrato l’immigrazione in ghetti: in Italia gli immigrati si sono mescolati agli italiani insediandosi negli spazi interstiziali. La maggioranza ha trovato lavoro, ha cercato il dialogo con gli italiani e si è adattata alle regole del gioco”. Molina non pare preoccupato dalla prepotenza populista, però. “Le stagioni politiche soffrono di pendolarismo, rispetto all’immigrazione”, osserva. “A una fase di apertura eccessiva ne segue sempre una di chiusura, ma bisogna essere lungimiranti perché la storia sarà più forte della nostra capacità di condizionarla. Infatti la legge 91 sulla cittadinanza pensata con una logica difensiva non ha impedito che negli ultimi anni ci siano in media 200 mia concessioni di cittadinanza ogni anno”. Ora, però, tutte le naturalizzazioni saranno frenate dal decreto sicurezza che raddoppia i tempi di attesa (portandoli fino a 4 anni dal momento della richiesta) e rende ancora più complicato l’iter anche per quel tipo di immigrati che la retorica salviniana a parole esalta: i regolari che lavorano, studiano e pagano le tasse. Dilemma: cosa succederà a migliaia di studenti privi di cittadinanza, che escono dalle università ma non possono andare a fare i master all’estero, concorrere ai bandi pubblici, entrare nelle istituzioni? Quale costo sociale avrà continuare a frenare l’integrazione?
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